Sabato 26 luglio, tardo pomeriggio. Cinquanta miglia. Forse meno. Sembra quasi di respirare l’aria di Gaza. Vento caldo, umido. A sud-est sono visibili le luci in Sinai, le prime dopo sette giorni di navigazione senza mai scorgere terra.
Da ore abbiamo superato il red point, quello dove un mese prima è stata abbordata la nave sorella di Handala, la Madleen della Freedom Flotilla. Ingenuamente speriamo che gli israeliani ci lascino arrivare per mostrare al mondo, ipocritamente, di essere l’unica democrazia in Medio Oriente. Nulla da fare. Da Haifa partono due pattugliatori con a bordo gli incursori della Marina di guerra. Quel reparto d’élite era a Brindisi nell’estate di due anni fa per addestrarsi con la Brigata San Marco.
L’ESERCITO ci aveva inviato il giorno precedente i droni di intelligence. Un grande Heron ci ha sorvolato a bassa quota, a mo’ di condor, per un paio d’ore poco prima. Gli aerei senza pilota, in buona parte made in Israel, avevano violato il firmamento durante le splendide notti trascorse incrociando le acque del Mediterraneo fin dalle coste greche. Non erano per noi. Erano per conto di Frontex e dei paesi della sponda nord per fare la guerra ai migranti. Anche i droni, come i marines, gli hovercraft e gli arrembaggi contro le navi umanitarie che trasportano cibo, medicine per Gaza, sono le prove che il Mare Nostrum non è più nostro, dei popoli che si sono scambiati culture, lingue, sapori.
L’arrembaggio dura pochi minuti. Un’operazione bellica da manuale. I marines sono attenti a non creare “effetti collaterali” sull’imbarcazione e l’equipaggio. Un solo errore. Hanno distrutto immediatamente due telecamere e strappato tutte le bandiere palestinesi, ma non si sono accorti di una terza telecamera che trasmetterà per un paio di minuti al mondo l’incursione di una trentina di robocop super armati, la nostra resistenza passiva, mani aperte e le note di Bella Ciao.
Hanno schede per ognuno di noi, ci chiamano con il nome di battesimo. Ci ordinano di sdraiarci sul ponte. Fingono di essere perfino umani, ci propongono panini e acqua fresca, ci consentono di usare il bagno. Mi umilia quel loro recitare gentilezza. Fossimo stati adolescenti palestinesi ci avrebbero schiacciati sotto gli scarponi. Hanno tutte e tutti il volto coperto, ma si distinguono i tratti degli occhi.
Sono ventenni, forse un paio di anni in meno. Sento una fitta al petto. La banalità del male. Adolescenti che mi ricordano tali e quali i miei studenti, belli come loro, ma che possono trasformarsi in macchine di distruzione e morte. Che forse hanno già ucciso a Gaza o nel sud del Libano.
Avete avuto paura in quei momenti? La domanda è ricorrente. No, non abbiamo avuto paura. Abbiamo sentito però, come un macigno, nel cuore, il peso della fine di un sogno: toccare terra e guardare negli occhi le bambine e i bambini di Gaza, davanti al miracolo di un piccolo guscio di noce che ha sfidato i marosi per portare un pizzico di umanità dove l’umanità è stata cancellata dalle bombe e dalle condanne a morte per fame e per sete. L’Handala del fumettista martire Naji Al-Ali che si mette alle spalle le ingiustizie e gli orrori della guerra e cammina verso la resistenza e la speranza.
A bordo dell’ex peschereccio c’erano gli orsacchiotti e i peluche consegnatici dai bambini di Siracusa e Gallipoli per darli in dono ai loro amichetti dell’altra parte del mare. Un pupazzetto rosso si è staccato da una fiancata durante l’assalto e si è aggrappato a una gamba. L’ho stretto al petto per altre otto ore nella notte. Alle prime luci dell’alba mi sono accorto che tanti altri compagni si abbracciavano a un peluche. Con le lacrime agli occhi alcuni, guardando il vuoto gli altri.
POI L’APPRODO ad Ashdod e la consegna alle forze di polizia. Brutali, violente, volgari. E razziste. Chi ha la doppia cittadinanza e un passaporto israeliano viene chiamato per primo. Li abbracciamo coscienti che non li incroceremo più a terra. Poi uno alla volta veniamo strattonati e spintonati dentro il terminal portuale, fino a un camerone dove ci sediamo a semicerchio guardati a vista da brutti ceffi che sembrano comparse di un pessimo serial tv sulla Us police.
Manca all’appello Chris, il leader sindacalista autonomo di Amazon. Da uno scorcio di vetrata vediamo che lo trascinano a forza. Chiediamo la presenza di un avvocato. Ci deridono, ci minacciano. Poi ci chiamano uno alla volta per avviare le operazioni di riconoscimento, perquisizione e sequestro dei borsoni e degli effetti personali. Mai più ci ritroveremo insieme. Di 15 dei 21 componenti della missione non saprò più come e dove staranno fino al rientro in Italia.
Venti ore di detenzione in due squallide celle e un altro paio in un cellulare, due metri per due, con due giornalisti di Al Jazeera e un media attivista di New York. Perquisizioni e denudamenti infiniti. L’umiliazione del puzzo di urina che ti esce da uno slip che non ti fanno mai cambiare. Ma l’Handala e l’umanità intera a bordo resterà umana.
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