Cambiare la scuola si può
di Daniele Novara
dal suo libro “Cambiare la scuola si può” ed. BUR
UN PO’ DI STORIA: LE SCUOLE DI MUTUO INSEGNAMENTO
Nel 1975 frequentavo la quinta liceo e, assieme ad altri studenti, iniziai un’esperienza pedagogica che per me fu molto importante: si organizzava, in un quartiere popolare di Piacenza, un doposcuola. Fu in quell’occasione che mi imbattei nella famosissima esperienza di Barbiana e, in particolar modo, nella Lettera a una professoressa.
Erano passati pochi anni dalla pubblicazione di quel documento e, anche se ormai don Milani era morto, l’eco di Barbiana era ancora fortissimo e in tanti ci ispiravamo a quella importante esperienza. Mi colpiva soprattutto un aspetto metodologico di Barbiana: l’impostazione mutualistica dell’insegnamento tra i ragazzi. Chi sapeva qualcosa lo insegnava ai compagni, in una condivisione che mi ha sempre affascinato e che ho trovato il tratto pedagogico più caratteristico di quel la esperienza.
Così, quando arrivò il momento di scrivere la mia tesi di laurea, scelsi di ricostruire la storia e le caratteristiche delle scuole di mutuo insegnamento. Ne esistono tracce fin dall’antichità, nella cultura greca, romana e persino ebraica. In Italia scuole del genere si diffusero agli inizi dell’Ottocento, ma già dal Cinquecento alcune congregazioni religiose particolarmente sensibili, che si occupavano di impartire un’istruzione elementare alle classi più popolari, utilizzavano gli studenti più preparati per formare i principianti, anche perché disponevano di pochi insegnanti.
Fu solo agli inizi dell’Ottocento che questi sporadici tentativi si trasformarono in un metodo vero e proprio, che si diffuse in tutta l’Europa. I primi ideatori di un sistema di istruzione elementare basato sul mutuo o reciproco insegnamento furono gli inglesi Andrew Bell e Joseph Lancaster.
A breve distanza di tempo l’uno dall’altro progettarono, organizzarono e diressero scuole popolari fondate sul principio del vicendevole insegnamento tra gli alunni: si proponevano di alfabetizzare bambini e ragazzi in tempi molto rapidi, attraverso una metodica per alcuni aspetti piuttosto meccanica, ma per altri davvero originale. Prevedevano gruppi classe formati da circa dieci alunni, di competenze omogenee, organizzati in una struttura gerarchica dal meno al più bravo e coordinati da un unico maestro che insegna va i fondamenti affiancato da «monitori». I monitori erano proprio gli studenti che si erano distinti per capacità di apprendimento nel proprio gruppo: svolgevano, di volta in volta, il ruolo di insegnanti per tutti gli altri. In questo modo, con un unico maestro si riusci vano a gestire in contemporanea anche centinaia di studenti e, se il metodo funzionava come previsto, un numero davvero significativo di alunni imparava l’essenziale dell’alfabetizzazione in poco tempo. Le materie erano quelle della formazione di base, cioè leggere, scrivere e far di conto. Tanti i pregi: le scuole di mutuo insegnamento costavano poco, non richiedevano spazi e materiali complessi o costosi e quindi potevano sopravvivere grazie al finanziamento di pochi benefattori; permettevano di apprendere in tempi ridotti perché attivavano processi di emulazione; stimolavano la motivazione (diventare monitori era un traguardo ambito e chiunque poteva riuscirci); infine, per questo, vincevano le resistenze delle classi più povere che contavano sulle braccia dei figli per la sopravvivenza familiare.
Le scuole di mutuo insegnamento non erano mosse da intenti rivoluzionari, non si proponevano di diffondere il sapere tra le classi meno abbienti per sovvertire l’ordine costituito. Più semplicemente si rendevano conto che la società, dopo la Rivoluzione francese e sotto l’impulso napoleonico, stava cambiando, e servivano competenze più diffuse. Nato in un periodo di grande fermento politico ed economico per l’Europa, il metodo si mantenne anche durante la Restaurazione del 1815, specialmente presso quei circoli e governi liberali che per seguivano l’educazione degli strati più popolari della società. Era un mezzo di educazione progressista, avanzata, che discendeva dalle riflessioni di pedagogisti illustri, da JeanJacques Rousseau ad alcuni dei suoi allievi più o meno importanti come Johann Heinrich Pestalozzi e Grégoire Girard.
Già allora i pionieri del metodo puntarono su due interessanti elementi psicologici: le dinamiche di emulazione, il desiderio cioè di stare al passo con i compagni tirando fuori le proprie risorse, e il fatto che insegnare agli altri permette di migliorare il bagaglio di conoscenze. C’è un antico detto che afferma: «Se vuoi sapere qualcosa, leggila. Se vuoi capire qualcosa, scrivila. Se vuoi imparare qualcosa, insegnala», quasi a sottolineare che l’apprendimento sostanziale si realizza proprio nel momento in cui si cerca di insegnare qualcosa a qualcuno. È utilizzato qualche volta per prendere in giro la figura del maestro un po’ retorico e pedante, scherzando sul fatto che «chi sa, fa, e chi non sa insegna». Ma il potere dell’apprendere insegnando e il ruolo che giocano i processi di imitazione ed emulazione dal punto di vista cognitivo non vanno sottovalutati, e la storia dell’educazione ci mostra il potenziale di esperienze scolastiche che hanno permesso alle generazioni passate di trovare nella condivisione un beneficio concreto, rendendo possibile a chiunque di imparare a leggere e scrivere.
SI IMPARA PIÙ DAI COMPAGNI CHE DAGLI INSEGNANTI
L’idea che gli alunni imparino dalle parole dei docenti è un equivoco: il mito della lezione frontale che permea ancora tanta didattica italiana, di cui parlerò nei prossimi capitoli, è legato a una particolare evoluzione storica, non certo a fattori cognitivi. Resta comunque diffusa l’idea della centralità della spiegazione, di quel momento in cui il docente, secondo una sorta di cerimoniale scolastico, inizia a parlare. La trasmissione del sapere, quell’effluvio verbale al quale è consegnato l’apprendimento, sospende il tempo e lo spazio e si trasforma in un rito, un atto fondativo dell’istituzione scolastica.
Ma si tratta appunto di un rito, non di un’azione consapevole e professionale, né di una ricerca di efficacia per l’apprendimento degli alunni. Spesso e volentieri è il perpetuarsi di una convenzione, che si tramanda nelle aule da tempi immemorabili.
Oggi il caso più evidente, che dimostra l’inefficacia della spiegazione, è quello dei bambini alle prese con una lingua straniera. Un’esperienza comune a molti insegnanti della scuola primaria è l’enorme trasformazione linguistica che investe i bambini stranieri, i quali spesso, appena arrivati nel nostro Paese, non conoscono affatto l’italiano.
Racconta la maestra Tiziana:
Nel giro di una settimana
Ricordo Maya, una bambina ecuadoriana arrivata in Italia in seconda elementare. Il primo giorno di scuola sapeva dire a malapena il suo nome, era molto spaesata, e i suoi grandi occhi neri mi guardavano pieni di domande. L’ho subito fatta sedere accanto a una bimba molto chiacchierona. Nel giro di una settimana già conosceva i nomi di tutti i compagni, del materiale scolastico e di alcuni cibi. Ho cercato di fare meno spiegazioni possibili e mi sono concentrata sul lavoro a piccoli gruppi, in modo da lasciare Maya il più possibile con gli altri bimbi. Di sicuro, la voglia di fare come gli altri e di comunicare ha permesso alla bambina di assorbire tutto e velocemente, imparando i fondamenti della lingua italiana in pochissimo tempo.
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