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Cambiare la scuola si può …

da | 30 Nov 2018 | Materiali

Cambiare la scuola si può

di Daniele Novara

dal suo libro “Cambiare la scuola si può” ed. BUR

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UN PO’ DI STORIA: LE SCUOLE DI MUTUO INSEGNAMENTO

Nel 1975 frequentavo la quinta liceo e, assieme ad altri studenti, ini­ziai un’esperienza pedagogica che per me fu molto importante: si or­ganizzava, in un quartiere popolare di Piacenza, un doposcuola. Fu in quell’occasione che mi imbattei nella famosissima esperienza di Bar­biana e, in particolar modo, nella Lettera a una professoressa.

Erano passati pochi anni dalla pubblicazione di quel documento e, anche se ormai don Milani era morto, l’eco di Barbiana era ancora for­tissimo e in tanti ci ispiravamo a quella importante esperienza. Mi col­piva soprattutto un aspetto metodologico di Barbiana: l’impostazione mutualistica dell’insegnamento tra i ragazzi. Chi sapeva qualcosa lo insegnava ai compagni, in una condivisione che mi ha sempre affa­scinato e che ho trovato il tratto pedagogico più caratteristico di quel­ la esperienza.

Così, quando arrivò il momento di scrivere la mia tesi di laurea, scelsi di ricostruire la storia e le caratteristiche delle scuole di mutuo insegnamento. Ne esistono tracce fin dall’antichità, nella cultura greca, romana e persino ebraica. In Italia scuole del genere si diffusero agli inizi dell’Ot­tocento, ma già dal Cinquecento alcune congregazioni religiose partico­larmente sensibili, che si occupavano di impartire un’istruzione elementare alle classi più popolari, utilizzavano gli studenti più preparati per formare i principianti, anche perché disponevano di pochi insegnanti.

Fu solo agli inizi dell’Ottocento che questi sporadici tentativi si trasformarono in un metodo vero e proprio, che si diffuse in tutta l’Europa. I primi ideatori di un sistema di istruzione elementare ba­sato sul mutuo o reciproco insegnamento furono gli inglesi Andrew Bell e Joseph Lancaster.

A breve distanza di tempo l’uno dall’altro progettarono, organiz­zarono e diressero scuole popolari fondate sul principio del vicen­devole insegnamento tra gli alunni: si proponevano di alfabetizzare bambini e ragazzi in tempi molto rapidi, attraverso una metodica per alcuni aspetti piuttosto meccanica, ma per altri davvero origi­nale. Prevedevano gruppi­ classe formati da circa dieci alunni, di competenze omogenee, organizzati in una struttura gerarchica dal meno al più bravo e coordinati da un unico maestro che insegna­ va i fondamenti affiancato da «monitori». I monitori erano proprio gli studenti che si erano distinti per capacità di apprendimento nel proprio gruppo: svolgevano, di volta in volta, il ruolo di insegnanti per tutti gli altri. In questo modo, con un unico maestro si riusci­ vano a gestire in contemporanea anche centinaia di studenti e, se il metodo funzionava come previsto, un numero davvero signifi­cativo di alunni imparava l’essenziale dell’alfabetizzazione in po­co tempo. Le materie erano quelle della formazione di base, cioè leggere, scrivere e far di conto. Tanti i pregi: le scuole di mutuo insegnamento costavano poco, non richiedevano spazi e materiali complessi o costosi e quindi potevano sopravvivere grazie al fi­nanziamento di pochi benefattori; permettevano di apprendere in tempi ridotti perché attivavano processi di emulazione; stimolavano la motivazione (diventare monitori era un traguardo ambito e chiunque poteva riuscirci); infine, per questo, vincevano le resi­stenze delle classi più povere che contavano sulle braccia dei figli per la sopravvivenza familiare.

Le scuole di mutuo insegnamento non erano mosse da intenti ri­voluzionari, non si proponevano di diffondere il sapere tra le classi meno abbienti per sovvertire l’ordine costituito. Più semplicemente si rendevano conto che la società, dopo la Rivoluzione francese e sotto l’impulso napoleonico, stava cambiando, e servivano competenze più diffuse. Nato in un periodo di grande fermento politico ed economi­co per l’Europa, il metodo si mantenne anche durante la Restaurazio­ne del 1815, specialmente presso quei circoli e governi liberali che per­ seguivano l’educazione degli strati più popolari della società. Era un mezzo di educazione progressista, avanzata, che discendeva dalle riflessioni di pedagogisti illustri, da Jean­Jacques Rousseau ad alcuni dei suoi allievi più o meno importanti come Johann Heinrich Pestalozzi e Grégoire Girard.

Già allora i pionieri del metodo puntarono su due interessanti elementi psicologici: le dinamiche di emulazione, il desiderio cioè di stare al passo con i compagni tirando fuori le proprie risorse, e il fatto che insegnare agli altri permette di migliorare il bagaglio di conoscenze. C’è un antico detto che afferma: «Se vuoi sapere qualcosa, leggila. Se vuoi capire qualcosa, scrivila. Se vuoi imparare qualcosa, insegnala», quasi a sottolineare che l’apprendimento sostanziale si realizza proprio nel momento in cui si cerca di insegnare qualcosa a qualcuno. È utilizzato qualche volta per prendere in giro la figura del maestro un po’ retorico e pedante, scherzando sul fatto che «chi sa, fa, e chi non sa insegna». Ma il potere dell’apprendere insegnando e il ruolo che giocano i processi di imitazione ed emulazione dal punto di vista cognitivo non vanno sottovalutati, e la storia dell’educazione ci mostra il potenziale di esperienze scolastiche che hanno permes­so alle generazioni passate di trovare nella condivisione un benefi­cio concreto, rendendo possibile a chiunque di imparare a leggere e scrivere.

SI IMPARA PIÙ DAI COMPAGNI CHE DAGLI INSEGNANTI

L’idea che gli alunni imparino dalle parole dei docenti è un equivoco: il mito della lezione frontale che permea ancora tanta didattica italia­na, di cui parlerò nei prossimi capitoli, è legato a una particolare evo­luzione storica, non certo a fattori cognitivi. Resta comunque diffusa l’idea della centralità della spiegazione, di quel momento in cui il docente, secondo una sorta di cerimoniale scolastico, inizia a parlare. La trasmissione del sapere, quell’effluvio verbale al quale è consegnato l’apprendimento, sospende il tempo e lo spazio e si trasforma in un ri­to, un atto fondativo dell’istituzione scolastica.

Ma si tratta appunto di un rito, non di un’azione consapevole e professionale, né di una ricerca di efficacia per l’apprendimento degli alunni. Spesso e volentieri è il perpetuarsi di una convenzione, che si tramanda nelle aule da tempi immemorabili.

Oggi il caso più evidente, che dimostra l’inefficacia della spiegazio­ne, è quello dei bambini alle prese con una lingua straniera. Un’espe­rienza comune a molti insegnanti della scuola primaria è l’enorme tra­sformazione linguistica che investe i bambini stranieri, i quali spesso, appena arrivati nel nostro Paese, non conoscono affatto l’italiano.

Racconta la maestra Tiziana:

Nel giro di una settimana

Ricordo Maya, una bambina ecuadoriana arrivata in Italia in seconda elementare. Il primo giorno di scuola sapeva dire a malapena il suo nome, era molto spaesata, e i suoi grandi occhi neri mi guardavano pieni di domande. L’ho subito fatta sedere accanto a una bimba molto chiacchierona. Nel giro di una settimana già conosceva i nomi di tutti i compagni, del materiale scolastico e di alcuni cibi. Ho cercato di fare meno spiegazioni possibili e mi sono concentrata sul lavo­ro a piccoli gruppi, in modo da lasciare Maya il più possibile con gli altri bimbi. Di sicuro, la voglia di fare come gli altri e di comunicare ha permesso alla bambina di assorbire tutto e velocemente, imparando i fondamenti della lingua italiana in pochissimo tempo.

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Cobas Veneto

Pubblicato da: Cobas Veneto

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I comitati di base della scuola sono un sindacato di base nato negli anni ’80 e che da allora opera nel nostro territorio e nel territorio nazionale, con docenti e A.T.A. volontari – precari e non – disposti a mettersi in gioco.

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