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Sul senso e sul declino della nostra scuola

da | 22 Ott 2018 | Materiali

Sul senso e sul declino della nostra scuola

di Franco Toscani da vivalascuola

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1. Scuola: la giocoliera del panaziendalismo

Un paese che consente e asseconda il declino, il degrado, la possibile distruzione della propria scuola non lo fa mai soltanto per motivi economici, né in seguito a mere scelte politiche contingenti, ma perché nel suo tessuto morale, civile, sociale, antropologico e culturale è avvenuta e sta tuttora avvenendo una mutazione profonda, di immani proporzioni. Tenteremo di capire qualcosa di questa mutazione, senza perdere di vista il senso ancora possibile di una scuola di qualità, di una vera buona scuola, non meramente propagandistica.

Negli ultimi decenni molti governi di vario orientamento, di destra e di sinistra, di centro-destra e di centro-sinistra, molti ministri della pubblica istruzione si sono succeduti, molte riforme della scuola sono state tentate, avviate, approvate e molte cose sono da allora peggiorate.

Già da tempo avanza il processo di dequalificazione e degrado della scuola italiana, ridotta sempre più a luogo di prevalente “socializzazione” caratterizzato dalla sostanziale irrilevanza dei contenuti di apprendimento (sempre più intercambiabili e alleggeriti), dal dominio della cultura delle immagini, della “didattica delle competenze” e delle tecnologie informatiche.

Si dimentica così la differenza essenziale tra le buone pratiche didattiche e il didatticismo; i frutti migliori dell’apprendimento scolastico non si

“possono acquisire attraverso corsi di pedagogia e di didattica“, ma “possono soltanto scaturire dall’interno delle specifiche discipline, dall’esercizio vivo del loro studio: proprio arti, scienze, filosofia, nel loro adeguato approfondimento, nella lora pratica matura e critica, e non certo astratte elucubrazioni pedagogico/didattiche, possono svolgere dal loro seno, entro la propria stessa struttura, orizzonti problematici, aperture creative, abilità collaborative, ecc.” (1).

Nella proposta di portare gli anni di studio liceale da cinque a quattro si sottolinea in modo tragicomico (ma in realtà molto più tragico che comico) l’esigenza di incrementare nel nuovo curriculum scolastico “l’essenzializzazione dei contenuti“, sorvolando bellamente sul fatto che, da non pochi anni, i contenuti sono stati già abbondantemente ridotti, anzi “essenzializzati“, sin quasi a volatilizzarsi. Qualcosa mi dice che dalla “essenzializzazione” alla volatilizzazione/evaporazione il passo si stia rivelando assai breve e forse tale si rivelerà ancor più in futuro.

Fra tagli alla spesa pubblica, riduzione dei programmi e delle ore dedicate a discipline essenziali, aumento del numero di allievi delle classi-pollaio, sfruttamento intensivo dei lavoratori della scuola, produzione continua di “progetti” di “alternanza scuola-lavoro” e d’altra natura ancora, incremento a dismisura del lavoro burocratico e dello stress aziendalistico, etc., siamo al punto in cui l’insegnamento diventa sempre più faticoso e difficoltoso e la formazione stessa del pensiero critico e delle capacità logiche è a rischio.

Sin dalla fine del XX secolo Antonio La Penna denunciò il “panaziendalismo” (2), secondo cui anche la scuola va concepita e organizzata sul modello dell’azienda, in cui dunque i presidi diventano sempre più manager (e sempre meno uomini e donne di cultura) e gli insegnanti diventano sempre più (coi loro “dirigenti scolastici“) promotori dell’ “azienda-scuola“, “operatori scolastici“, impiegati-burocrati al servizio del Gestell (come direbbe Martin Heidegger) (3), accaparratori dell’utenza, intrattenitori e animatori, elaboratori/compilatori di progetti, consulenti psicologi e accompagnatori degli studenti-clienti nella fruizione dei mass-media, nello svolgimento degli stages e dei “progetti“, nell’organizzazione dell’ “alternanza scuola-lavoro“, nella “socializzazione“.

Le funzioni degli insegnanti tendono a essere svuotate dalle nuove tecnologie didattiche costituite da lezioni televisive, videocassette, ipertesti interattivi, prodotti multimediali, uso massiccio del computer e delle magiche lavagne luminose, etc.

Più del lavoro svolto in classe, del nutrimento reale di letture e studio, dell’amore per il sapere e per la verità, contano essenzialmente la capacità di convogliare finanziamenti o l’uso delle nuove tecnologie.

Navighiamo a vista nella odierna scuola di massa rivolta ai consumatori-produttori, alla spasmodica ricerca del “nuovo“, intravisto essenzialmente nelle innovazioni tecnologiche incessanti, nelle strumentazioni tecnologiche in frenetico sviluppo.

Quello attuale è un modello di scuola aziendalistico, gerarchico e produttivistico, in cui la “produzione” non è sovente autentica produzione di cultura, ma di “progetti” e di prestazioni estrinseche; la parola d’ordine mitizzata dell’ “autonomia scolastica” maschera per lo più e avalla l’arbitrio degli indirizzi scolastici territoriali ed è nelle mani dei super-poteri del dirigente scolastico chiamato a scegliere e a premiare economicamente i docenti più impegnati nella elaborazione degli innumerevoli “progetti“, pochi dei quali sono realmente utili e molti altri sono solo incaricati di distogliere gli allievi dallo studio.

In questa scuola le procedure di “valutazione” (altra parola magica, circondata di aura sacrale) tendono a ridurre l’azione didattica a performance misurabile, secondo i dettami della più miope ratio strumentale-calcolante. Tutto dev’essere quantificato e ridotto a misurazione quantitativa in un lavoro che, in realtà, non può essere mai del tutto quantificato e controllato secondo una mera logica aziendalistica, computazionale e quantitativa, perché in gioco sono qui innanzitutto la comprensione, la formazione, le capacità di interpretazione, approfondimento e interrogazione, l’empatia, lo spirito critico e di ricerca, il senso del dubbio, etc. .

2. L’alienazione scolastica

Una vera scuola buona non può reggersi soltanto sulla ragione strumentale-calcolante, perché nella concreta pratica scolastica entrano in gioco fattori che non si lasciano calcolare, misurare, quantificare. Sono i fattori della soggettività in carne e ossa, dei vissuti e delle esperienze soggettive, delle condizioni emotive e sentimentali, della qualità e delle passioni della vita, dei rapporti concreti fra i soggetti. Nella scuola attuale tali fattori letteralmente contano poco, sono insignificanti rispetto al principio di prestazione dominante e alla “valutazione oggettiva” dell’alunno.

Nel loro massiccio imporsi, la instrumentelle Vernunft – la ragione strumentale, le cui caratteristiche essenziali sono state mirabilmente messe in luce nel XX secolo per la prima volta dai grandi maestri della “scuola di Francoforte” come Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adorno ed Herbert Marcuse (4) – e l’attuale assolutizzazione della “didattica digitale“ (col suo ampio corredo di slides, video, “progetti“, “prodotti“, CLIL o Content and Language Integrated Learning, etc.) tolgono spazio alla libertà creativa e all’autonomia degli individui. Le vere innovazioni dovrebbero invece tendere a valorizzare il pensiero critico e simbolico, la creatività e l’immaginazione, le capacità di rielaborazione e di approfondimento.

La vera e propria ossessione quantitativa della misurazione e del controllo non considera che il sapere non si acquisisce mai una volta per tutte, in via definitiva, non diventa un possesso stabile e statico; esso infatti è sempre in divenire, è un processo aperto e dinamico, spesso lento, di maturazione, di apprendimento, di consapevolezza, di affinamento spirituale, di crescita interiore e intersoggettiva, di approfondimento interminabile. Ciò che conta qui è l’amore per il sapere, non certo la pretesa di possederlo.

L’insegnamento senza eros e affettività, senza la passione per la verità e per il “vero come intero” (come direbbe Hegel), centrato essenzialmente sulla “didattica delle competenze” finalizzata all’utile (inteso in senso meramente economico), diventa uno strumento formidabile nelle mani dei poteri dominanti, rivolto ad azzerare lo spirito critico e a trasformare gli utenti della scuola in individui asserviti, docili ed efficienti pedine al servizio della megamacchina del sistema e del profitto. Il disciplinamento che in tal modo si va massicciamente dispiegando assume sempre più un carattere nel contempo sistematico, totalitario, serrato e insensato.

Il mondo nel quale ci troviamo ad operare è sempre più governato dal primato dell’economia:

“L’economia viene sempre più a percepirsi non tanto come produzione di beni necessari alla vita, costruzione umana sulla realtà naturale, ma come competizione illimitata, espressione e crescita senza fine, il cui solo provvisorio rallentamento produce stati di crisi, di malessere, di disoccupazione. Le esigenze dell’economia globalizzata, il ritmo competitivo che essa richiede, il suo disporsi entro l’orizzonte finanziario, danno luogo ad una sempre più marcata velocità di processi e cambiamenti. L’impetuosa innovazione tecnologica e il diverso caratterizzarsi dei modelli di consumo impongono continue modificazioni dei processi produttivi, con il corrispettivo di una sempre maggiore esigenza di adattare competenze e attitudini lavorative e di una illimitata mobilità nel mondo del lavoro (quella che un po’ eufemisticamente viene chiamata ‘flessibilità‘). In questo quadro economico, le capacità e abilità individuali, i modelli culturali, l’intero orizzonte delle conoscenze vengono a costituire quello che viene chiamato ‘capitale umano‘: orientato verso la produzione competitiva, l’articolazione e l’organizzazione delle imprese, lo scambio e la circolazione delle merci, la definizione dei loro modi di consumo, entro quella che viene anche definita ‘società della conoscenza‘ (dove si intende una conoscenza direttamente funzionale all’impiego economico)”. (5)

La nostra è una situazione scolastica di una società sempre più desolata e depressa, competitiva e individualistica, dell’ “aiuola che ci fa tanto feroci“, di un sistema economico, politico e sociale imperniato sull’idolo del profitto, che riduce gli esseri umani a meri produttori/consumatori obbedienti alla logica del sistema.

Fondato sulla mera ratio strumentale-calcolante e sul culto del profitto, sul dominio pressoché esclusivo del cosiddetto “pensiero computazionale“, il sistema ha bisogno di una scuola al servizio dell’economia e dell’impresa, che serva alle esigenze dell’attuale mercato del lavoro, di individui flessibili e intercambiabili capaci di adattarsi alle forme dominanti della globalizzazione neocapitalistica: a ciò rispondono la “didattica delle competenze” e quella che alcuni studiosi hanno chiamato la “riformite” acuta, la “retorica della riforma” o la “riforma infinita“, ossia quella vera e propria smania riformistica che ormai da decenni ha coinvolto governi di ogni tipo e colore politico nel tentativo ossessivo di avviare riforme della scuola o frammenti di riforma che hanno quasi sempre avuto come esito il peggioramento della situazione scolastica esistente (si pensi, tanto per fare un solo esempio, a come è stata intesa e praticata la tanto sbandierata “autonomia scolastica“).

3. La didattica viene per ultima

Nella scuola odierna la deriva aziendalistica e la burocratizzazione crescente del lavoro dei docenti fanno tutt’uno con la logica dell’uomo solo al comando, una logica mostruosa che unisce il peggio dell’efficientismo capitalistico e del burocratismo statalistico d’impronta veterocomunista.

Un tempo i presidi erano uomini (o donne) di cultura, con cui si poteva ancora discorrere ogni tanto di Pasolini o di Aristotele; oggi i presidi, diventati “dirigenti scolastici” e manager alle prese con la carenza di fondi, sono anch’essi gravati da un carico enorme di responsabilità, spesso sono costretti a dirigere più scuole, correndo freneticamente da un edificio all’altro come “reggenti“, a occuparsi letteralmente di tutto: di sicurezza, forniture, report anticorruzione, processi e grane giudiziarie, pettegolezzi, cattiverie gratuite, sciocchezze e miserie umane varie; sono così costretti ogni giorno a indossare maschere diverse e a improvvisarsi investigatori, avvocati, counsellor, mediatori culturali, questuanti, direttori di marketing, esperti di ingegneria strutturale e di idraulica: la didattica viene per ultima, di fatto spesso non c’è quasi più tempo per l’offerta didattica.

La nostra è una scuola in cui non sono più in primo piano l’amore per la ricerca e lo studio, la passione per la verità, la libertà e lo spirito critico, la solidarietà, lo spazio dei sentimenti e delle relazioni, la ricchezza di umanità, spiritualità e cultura, la cura della natura e degli esseri viventi; tutto tende piuttosto a essere uniformato, sorvegliato, standardizzato, monitorato, sottoposto alla furia sistematica di controllo e di manipolazione.

Nel tempo in cui viviamo il Gestell – dispositivo o impianto vampiresco che manipola, controlla e dispone degli individui come pedine intercambiabili al suo servizio – blocca o rende molto arduo il sorgere della passione culturale autentica:

“Il mondo in cui i ragazzi si trovano immersi non rende più credibile la cultura trasmessa nelle scuole e le stesse modalità della sua trasmissione. La scuola si trova a fare i conti con una formazione extrascolastica suscitata dalla televisione, dalle tecnologie informatiche, dalle famiglie e dal consumo culturale giovanile, i cui caratteri escludono ogni concezione della cultura scolastica come strumento di crescita, di approfondimento di coscienza e costruzione di sé. Inoltre, nel quadro economico, che vede crescere la distanza tra ricchi e poveri e la classe media sempre più impoverirsi, sotto lo schermo della flessibilità si disegna un futuro sempre più incerto e aleatorio, che sembra negare ogni garanzia di mobilità sociale. Pochi credono nello studio come strada per un miglioramento della propria condizione; ad esso si sostituiscono spesso le illusorie immagini e promesse di successo suggerite dal mondo dello spettacolo, dello sport e della moda”. (6)

Va qui sottolineata pure la forte ambiguità della formula, molto in voga in certi indirizzi pedagogici attuali, della “centralità dello studente“, che spesso in realtà non fa altro che assecondare lo studente nel seguire acriticamente i suoi abituali, conformistici orizzonti mentali e di esperienza, senza consentirgli una crescita e una maturazione reali ulteriori. Noi pensiamo a studenti che non siano solo animatori digitali risucchiati nel ristretto e miope orizzonte del consumismo edonistico.

Nel dominio del Gestell ciascuno si ritrova ad essere nient’altro che una insignificante e intercambiabile rotellina di un gigantesco apparato, di un meccanismo che succhia come un vampiro impersonale il sangue alle sue vittime e ai suoi sottoposti per alimentare il proprio esclusivo insensato funzionamento. (7)

Di per sé il lavoro di insegnante non è un lavoro alienante, perché consente la realizzazione di se stessi, della propria vocazione e passione nel rapporto costante coi giovani discenti, ma nelle condizioni attuali è diventato un lavoro alienato, perché i docenti non valgono più in quanto tali, ma soprattutto come funzionari dell’apparato, dell’amministrazione burocratica, del mercato, delle merci e del capitale. Si tratta di una forma chiara e inequivocabile di alienazione (da alius, altro), per il fatto che i docenti diventano altro da ciò che sono e dovrebbero essere. Ed è una forma di alienazione che colpisce, in un modo o nell’altro, tutti i lavoratori della scuola, dai bidelli e dagli impiegati negli uffici (nel grigio linguaggio burocratico, il “personale ATA“) agli insegnanti e ai dirigenti scolastici, irrigiditi nelle pratiche e nei compiti prefissati dagli apparati e dal Gestell.

La scuola che fa un mito della misurazione e della “oggettività delle prestazioni” fa tranquillamente astrazione dalla soggettività concreta dei propri allievi e dei propri insegnanti, non è più una scuola intesa come formazione umana integrale, ma forma soltanto – attraverso l’esaltazione della “didattica delle competenze” e il progressivo venir meno dell’importanza dei contenuti essenziali dello studio – la “cineseria“, un’umanità derelitta di futuri lavoratori e consumatori alienati, impoveriti, culturalmente depressi, docilmente al servizio delle esigenze del capitale e privati innanzitutto della loro stessa ricchezza umana e culturale.

Sulla “didattica delle competenze” ha osservato Giulio Ferroni:

“La scuola del futuro sarebbe una scuola delle competenze, dove il sapere si presenta prima di tutto come un saper fare, cooperare per risolvere problemi (magia del problem solving), manipolazione di dati da acquisire in primo luogo sulla rete, in perpetua connessione con il mondo (o piuttosto con la virtualizzazione del mondo offerta dalla rete). (…)

Insistere sulle competenze sganciate dai contenuti comporta una sorta di evaporazione della sostanza concreta del sapere, della sua materialità e corporeità: con l’esito di una mera fungibilità del soggetto e del suo stesso sapere. Non esistono competenze culturali e scientifiche senza contenuti e sostanze disciplinari, senza una padronanza della ‘materia‘. Questa vecchia parola in fondo indica proprio la materialità del sapere, la sostanza di corpo organico delle discipline, che la pedagogia attuale tende in genere a frantumare nella modularità, nei vari modi in cui si tende a spezzettare l’insegnamento delle materie in singoli moduli, in frammenti spesso tra loro irrelati, talvolta con esiti disastrosi”. (8)

Qualcuno ha detto “schola missa est“, perché le scuole sono diventate e stanno sempre più diventando “progettifici” in cui i dirigenti garantiscono maggiori emolumenti ai docenti essenzialmente in rapporto ai progetti extracurricolari messi a punto e alla crescita costante dell’utenza scolastica o, per essere più precisi, del numero di allievi iscritti alla scuola stessa. Time is money, bellezza!

Se le cose stanno così, è facile prevedere che cresceranno sicuramente tra i docenti il conformismo e l’obbedienza acritica, il servilismo e l’opportunismo, la mancanza di una “valutazione” e di un pensiero liberi e autonomi.

Quale idea e progetto di scuola e di società può emergere da tutto ciò? Una scuola e una società caratterizzate soprattutto dalla competizione, dall’individualismo, dalla cortigianeria, dall’opportunismo, dal servilismo e dalla doppiezza, dal cinismo e dal mero calcolo delle convenienze, dall’autoritarismo aziendalistico, dalla mancanza di solidarietà e di cooperazione, dalla prevalenza di un clima avvelenato e infetto, irrespirabile per tutti coloro che sono sorretti da un genuino amore per la cultura, per la libertà e la verità.

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Note

1) G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno Editrice, Roma 2015, p. 34.

2) Cfr. A. La Penna, Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999. Cfr. anche M. Bontempelli, L’agonia della scuola italiana, CRT-Petite Plaisance, Pistoia 2000 e L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, Milano 2000.

3) Per l’approfondimento della nozione di Gestell, sulla quale qui non possiamo soffermarci, si veda soprattutto M. Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze (1954, vol. VII della Gesamtausgabe), Klett-Cotta, Stuttgart 2004, pp. 9-40; trad. it., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976-1980, pp. 5-27. Cfr. anche Einblick in das was ist. Bremer Vorträge 1949, in M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge (vol. LXXIX della Gesamtausgabe), a cura di P. Jaeger, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1994, pp. 1-77; trad. it. di G. Gurisatti, Sguardo in ciò che è. Conferenze di Brema del 1949, in Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, pp. 17-108.

4) Sulla drammatica crisi di senso che caratterizza l’attuale società tardo-capitalistica, è da raccomandare tra l’altro l’ampia raccolta di saggi di un grande filosofo italiano molto attento agli orientamenti dei francofortesi come Tito Perlini (1931-2013), spesso ingiustamente sottovalutato: Attraverso il nichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria, a cura di E. Cerasi, Prefazione di C. Magris, Nino Aragno Editore, Torino 2015.

5) G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno Editrice, Roma 2015, pp. 43-44.

6) G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno Editrice, Roma 2015, p. 50.

7) Sulla questione del Gestell nel nostro tempo, rinvio al mio saggio L’epoca del Ge-stell. La tecnica, l’uomo e il sistema, in AA., Sulla via della polis infranta. Assedio ai diritti e manipolazione globale, a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004, pp. 103-133.

8) G. Ferroni, La scuola impossibile, Salerno Editrice, Roma 2015, pp. 58-59.

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Pubblicato da: Cobas Veneto

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