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ABC dell’anno della buona scuola

da | 28 Giu 2015 | Materiali

ABC dell’anno della buona scuola

di Tullio Carapella da viva la scuola

Un commento sull’oggi

Oggi, con la chiusura degli scrutini magari recuperati a tarda ora, a causa della grande partecipazione all’ultimo sciopero, l’anno scolastico 2014-2015 può dirsi realmente finito. Resta solo il corollario di esami per piccoli e grandi, di debiti e recuperi per alcuni di questi ultimi, di riunioni e collegi per i docenti. Resta, soprattutto, la sensazione che la partita importantissima che si è giocata sin dall’inizio dell’anno sopra le teste di docenti e alunni, quella della “buona scuola”, non si sia ancora chiusa. Non si chiuderà nemmeno tra breve, con la sua approvazione, a questo punto non più scontata, al Senato.

È evidente infatti che si sta provando a procrastinare sino a fine mese, sapendo che dal primo luglio nelle scuole resta quasi solo chi è impegnato negli esami di Stato (che non possono essere bloccati) e che a quel punto l’organizzazione di una protesta da parte dei docenti sarebbe decisamente più difficile. Volerla approvare a porte chiuse e a tarda ora, come i ladri, è l’ennesima dimostrazione che questa “riforma” è fatta non per, ma contro il mondo della scuola.

Contare sui “ripensamenti” di protagonisti della campagna acquisti parlamentare, bella gente come Verdini, con la possibilità che il gioco non riesca e tutto salti, è evidentemente solo in parte un azzardo per Matteo Renzi. Ha rifiutato ogni invito a stralciare dalla proposta di legge sulla scuola la parte relativa alle assunzioni, predisponendo un decreto ad hoc, come del resto si fa ogni anno, proprio per utilizzare l’arma delle 100.000 immissioni in ruolo come strumento di ricatto per imporre la ricetta sua (e di chi gliel’ha dettata) per la buona scuola. Si prepara ora, in caso di bocciatura, ad adoperarla ancora, quell’arma, per accusare gli oppositori, e il mondo della scuola in primis, del fatto che il prossimo avvio di anno scolastico potrebbe rivelarsi più precario e caotico che mai e che tanti lavoratori che hanno il diritto di rivendicare stabilità resteranno ancora fermi al palo.

Sono stati quei lavoratori per primi, però, a denunciare il gioco sporco del governo, e a rifiutare di essere utilizzati come massa di manovra per imporre alla scuola una sterzata reazionaria e pericolosa, e sono pronti a manifestare anche a ferragosto per ribadirlo ancora. Non andranno lasciati soli, perché spetta a tutto il popolo della scuola il compito di dimostrare, a chi si ostina a non capire, che siamo pronti a difendere quel che di buono ancora c’è, e che le precedenti “riforme” hanno risparmiato, ciò che si intende smantellare con le misure attualmente in discussione e con una decina di leggi delega che si vogliono promulgare nei successivi diciotto mesi.

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L’ABC della “buona scuola”

La partita, in nessun caso, si chiuderà nei prossimi 15 giorni. Il dibattito sulla cosiddetta “buona scuola”, ossia sull’ultima “riforma” destinata a risollevare le sorti dell’italica pubblica istruzione, ci accompagnerà almeno per altri due anni e ha cominciato ad ammorbare l’aria già all’indomani della chiusura dello scorso anno scolastico.

È del 14 giugno del 2014, infatti, la lunga intervista al Corriere della Sera nella quale la Giannini enuncia i punti chiave della scuola che vorrebbe: la revisione dei meccanismi di reclutamento, la necessità di “scremare” larga parte dell’attuale esercito di precari, l’autonomia, che definiva “la community”, come strumento per accrescere il senso di appartenenza ad una istituzione scolastica, gli accresciuti poteri per i dirigenti, la possibilità di promuovere i migliori progetti per la crescita del proprio istituto, il merito, la competizione, la valutazione, la necessità della formazione continua. Non mancano, in quell’intervista, le solite parole vuote sulla necessità di offrire “retribuzioni adeguate”, o quella di ricreare un ambiente di “pari opportunità” nel senso proposto da Don Milani, della cui dipartita, poverino, ci si approfitta per farne un testimonial incolpevole di qualunque impresentabile operazione di “marketing scolastico”. Le parole al vento ci stanno, non sorprendono, così come non stupisce la somiglianza tra le affermazioni della Giannini e i 12 punti snocciolati in pompa magna da Renzi il successivo 3 settembre.

Potrebbe sorprendere, invece, la perfetta coincidenza tra quanto la Giannini auspicava un anno fa e quanto oggi è contenuto nel disegno di legge della cosiddetta “buona scuola“, perché se quest’ultimo, come ci hanno ripetuto fino alla nausea, nasce da un democratico confronto con il mondo della scuola, ossia da quasi due milioni di suggerimenti di docenti, alunni e genitori piovuti nel sito del MIUR da settembre ad oggi, è strano che questi siano stati così eccezionalmente concordi con i nostri ministri, da non modificare di una virgola le proposte iniziali. Ma forse è da ingenui meravigliarsi: Renzi è un innovatore vero, e con lui anche la vetusta idea di dialogo inteso come confronto tra posizioni differenti è superata. Il dialogo serve, giustamente, per dare ai poveri di spirito la soddisfazione di parlare e l’illusione di poter essere ascoltati, o, meglio, di approvare quanto ti ordina il capo, evitando fastidiose riflessioni, ripensamenti e pericolose autonome attività neuronali.

Per parte mia, essendo certo che mai nessuno dalle parti del governo si prenderà la briga di leggere le riflessioni che seguono, così come non hanno mai letto due milioni di riflessioni precedenti, provo a raccogliere un paio di idee sull’anno che si chiude e sui temi che l’hanno caratterizzato, e nel farlo non nasconderò la mia inadeguatezza di fronte ai potenti mezzi della scuola 2.0, e mi farò guidare dall’abbecedario.

A come Autonomia

Autonomia è tra i cinque punti riportati da Renzi sulla lavagna, il 13 maggio, per descrivere, con uno spot elettorale privo di contraddittorio, la sua “buona scuola” e costituisce anche, l’autonomia, l’incipit della legge stessa. Per capire cosa si celi dietro la parolina magica, che da quasi vent’anni viene pubblicizzata come panacea di tutti i mali della scuola, è sufficiente andare qualche articolo oltre il primo. Si scopre così che dietro l’autonomia in salsa renziana non c’è nemmeno quell’idea di indipendenza nelle scelte didattiche (con la possibilità di mettere in atto sperimentazioni più o meno apprezzabili, ma reali) propagandata da Luigi Berlinguer già nel ‘96. L’Autonomia di Renzi/Giannini, o di chi l’ha scritta per loro, non accompagnata, per dirne una, dalla cancellazione delle norme della Gelmini sull’impoverimento dei quadri orari e l’aumento degli alunni per classe, è un concetto prettamente amministrativo o, più precisamente, di gestione delle risorse umane. È la possibilità per i dirigenti di governare ogni singola scuola come un’azienda autonoma dalle altre, con i suoi 100/150 dipendenti e i suoi 1000 o 2000 utenti. Va da sé che quei dipendenti dovranno essere strettamente legati a un capo, che li ha scelti, che può non sceglierli più ad ogni nuovo triennio, che può premiarli con un soldino in più o che può punirli, insindacabilmente. Perché dovrebbe questa autonomia curare ogni male della scuola, o, più semplicemente, perché dovrebbe garantire una migliore qualità d’insegnamento? L’evidenza dice il contrario: le scuole private (si dice paritarie, lo so) funzionano da sempre così, e mediamente non vi si insegna né più, né meglio che in quelle statali. Ma allora: cui prodest? A chi giova? Forse la risposta richiede una riflessione che va oltre la scuola.

B come Buona

Forse il senso primo del condurre una campagna per la Buona scuola che, ha ragione Renzi, è solo ai primi passi, è di chiamare tutti, in primis chi la scuola la conosce poco, ad una nuova crociata. Ciò che astrattamente viene spacciato per “buono”, in primo luogo, è in ogni materia contrapposto a “cattivo”. Esprime quindi il senso, molto amato dai manichei di ogni tempo, di una contrapposizione frontale tra bene e male, di quelle in voga quando si deve costringere un popolo a massacrare e farsi massacrare da un altro.

Difficilmente si può dare torto a chi si proclama dalla parte del buono, soprattutto oggi, perché può contare sulla cassa di risonanza di tutti o quasi i mezzi di comunicazione. Ad attingere solo da quelli sembrerebbe che finalmente ci si stia interrogando su ciò che per la scuola è giusto e ciò che è sbagliato. Occorre leggere con attenzione gli articoli di legge (nella loro edizione originale o in quelle emendate, che non cambiano la sostanza) per verificare che il legislatore certe domande non se l’è poste né, tantomeno, ha dato soluzioni.

Dobbiamo avere il coraggio di spiegarlo bene, fa niente se ci dicono che chi è contro la “buona scuola” non può che essere un difensore ultraconservatore di quella cattiva. Lo dice soprattutto chi ci marcia e chi ha meno strumenti per leggere i reali contenuti della proposta di legge. Oggi i lavoratori della scuola sono ancora isolati in una lotta che pure ha conosciuto momenti di partecipazione collettiva, come lo sciopero del 5 maggio, tra i più alti della storia della repubblica. All’interno delle scuole, tutti, anche gli alunni, che contro la “buona scuola” manifestavano già il 14 novembre, hanno fiutato la fregatura. Sta al popolo della scuola svolgere il compito, fondamentale e non rinviabile, di spiegarlo all’esterno, con i mezzi poveri che abbiamo (in forma digitale o su carta, con vademecum, opuscoli, lettere aperte, volantini, con manifestazioni o con quel che si vuole), ma con pazienza e con la forza della ragione, perché anche i cattivi, nel loro piccolo, hanno spesso ragione e talvolta si incazzano.

C come Continuità

Una cosa che ci fa molto arrabbiare è, ad esempio, essere presi in giro. Dà fastidio questa eterna campagna elettorale, che sostituisce al dibattito serio su questioni importanti, i mezzi propri degli spot pubblicitari, dove la verità è un optional e piazzare un prodotto è tutto. Uno degli elementi più pubblicizzati del prodotto “buona scuola”, richiamato tra i cinque punti sulla lavagna di Renzi, è senza dubbio la continuità dei docenti sulle classi, per non costringere gli alunni a continui cambiamenti. Ciò sarebbe sicuramente bello, se solo fosse vero. Vero è piuttosto l’esatto contrario.

I piani triennali previsti dal disegno di legge, quelli sulla base dei quali il preside pesca da un albo territoriale (nell’ultima versione sono definiti “ambiti”, ma nulla cambia) i docenti “più adatti“, oltre ad essere di improbabile trasparente attuazione, sono garanzia di discontinuità. Non esiste alcuna norma che consenta ai docenti “territoriali” (tutti i nuovi assunti da oggi in poi) di essere stabilizzati in una scuola, nemmeno dopo un secolo, esistono di contro norme che prevedono per chi chiede un trasferimento e per chi risultasse soprannumerario di entrare in questi grossi calderoni. Nel giro di pochi anni la grande maggioranza degli insegnanti non avrà la titolarità di un luogo di lavoro, dopo una quindicina di anni non l’avrà più nessuno. Saremo tutti negli albi territoriali, costretti a sperare ogni tre anni in un nuovo incarico, e pronti a cambiare scuola ogni tre anni, qualora cambiasse, per trasferimento, decesso, pensionamento, o perché ultimamente si pensa a renderli itineranti, il preside che ci ha adottati, o qualora non fossimo più nelle sue grazie.

Per i ragazzi, che certo non vagano tra albi, o ambiti, territoriali, ma che sono all’antica e pretendono di essere iscritti a una singola scuola, queste continue diaspore di docenti e dirigenti non saranno un bell’affare. Né si vede, e il governo non si è preso la briga di spiegarlo, in che modo possa giovare alla didattica questa ulteriore precarizzazione del rapporto di lavoro, che giunge oggi a negare a tutti i docenti, vecchi e nuovi il diritto alla continuità della sede di insegnamento.

D come Diritti

I diritti, o, meglio, la perdita dei diritti è il vero leitmotiv della riforma Renzi/Giannini. Con la sua eventuale approvazione non solo dovremmo dire addio al diritto alla titolarità di sede, ma anche al libero insegnamento, perché è impensabile che un docente non si senta condizionato, proprio come avviene nelle scuole private, dai modelli imposti dal dirigente nella sua scuola, con il suo piano dell’offerta formativa, con i suoi poteri di premiare i buoni e con quello di condannare i cattivi. Di più, per le stesse ragioni dovremo dire addio alla libera espressione del nostro pensiero nelle sedi, quali il collegio docenti, dove ciò ancora era possibile. Dovremo tenere nascosta l’eventuale volontà di avere un figlio, o la necessità di curare un tumore. Lo so, può apparire un’esagerazione, ma in realtà già avviene, in quelle “private” che diventano modello da imitare per le statali, perché per una azienda un lavoratore malato, o uno con disabilità, o una lavoratrice incinta sono un problema.

Certo anche questi lavoratori saranno assunti, dallo Stato, e finiranno negli albi, ma, se pure riuscissero a superare l’anno di prova per come oggi è previsto, da lì molto difficilmente li selezionerà un preside. Proprio come nelle private dovremo accettare di fare “qualcosina” fuori contratto, per non mostrarci ingrati. Dovremo guardarci bene dall’apparire sindacalizzati (a meno che non abbiamo preventivamente verificato che lo sia il nostro dirigente), perché il sindacato non potrà contrattare praticamente più nulla e gode presso questo bizzarro governo “di sinistra” della stessa considerazione che ne avevano i padroni delle ferriere dell’Ottocento.

Oggi come due secoli fa è in pericolo il diritto al lavoro stesso, a cominciare da quello di chi insegna da anni come precario. Sebbene emendato per evitare ricorsi, non è infatti cambiata la sostanza dell’articolo che prevede che i contratti a tempo determinato non possano superare la durata complessiva di 36 mesi, anche non continuativi. Nell’ultima versione del ddl è specificato che questa norma non è retroattiva, ma resta la sostanza: i precari, dopo 36 mesi, sono fuori. Renzi non vuole che si parli di licenziamento, altrimenti si intristisce, e non lo faremo, definendola una porta sbattuta in faccia a chi lavora per lo stato magari con merito, da anni, sempre con buona pace della continuità.

Questo governo, così sensibile ai “ce lo chiede l’Europa”, rovescia il senso della norma nazionale e comunitaria che, a tutela dei lavoratori, chiede che il datore stabilizzi chi svolge le stesse mansioni da tre anni, e non certo che lo licenzi. Agisce inoltre come il più micragnoso dei padroncini, che allontana il dipendente non appena sarebbe costretto ad assumerlo per davvero. E forse è questa sorprendente coincidenza tra i seguaci della “buona scuola” e padroncini e grossi padroni delle ferriere a rivelarci a chi gioverebbe questa “riforma”.

continua

Cobas Veneto

Pubblicato da: Cobas Veneto

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