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Meritocrazia

da | 6 Dic 2014 | Materiali

Mala tempora currunt. Nell’Italia contemporanea, affetta da gravissime patologie culturali e socio-economiche, occorrerebbero diagnosi e anamnesi dettate da capacità, onestà e chiarezza. Ma occorrerebbe, in primis, quell’attribuzione di responsabilità individuale e collettiva che già Pasolini, 40 anni or sono, invocava invano, nelle forme del processo al potere politico. La metamorfosi profonda operata dal consumismo, dalla mercificazione, dall’omologazione, dalla massificazione, a partire dagli anni Settanta, ha assunto oggi, nel nostro tessuto sociale, i tratti deformati della metastasi: il consumismo si è trasformato in neoliberismo sfrenato, l’omologazione ha generato il Pensiero Unico. Paradigmi, valori, ideologie e forme reali di aggregazione sono scomparsi dal nostro immaginario collettivo e dal nostro vissuto sociale, mentre tutte le istituzioni pubbliche e private di questo Paese, immerse nell’orgia trimalcionica del potere, impregnate di corruzione e clientelismo e dunque ormai irrimediabilmente marce, stanno implodendo per apoptosi.

Le responsabilità politiche di chi ha governato la Repubblica italiana dal ’46 a oggi vanno oltre ogni possibile percezione della loro effettiva gravità.

I segni del reale indicano condizioni drammatiche: milioni di italiani di tutte le età sono senza lavoro, milioni di famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà. Agli ospedali e alle scuole non vengono più erogati i fondi necessari per il loro funzionamento. A centinaia di migliaia di lavoratori non viene pagato da mesi lo stipendio. Il sistema Italia sta collassando e in questa condizione di estrema precarietà il ricatto, l’imbroglio, la mistificazione di chi gestisce le leve del potere sono pane quotidiano. I Grandi Imbonitori, dai palcoscenici della politica e con l’eco dell’informazione asservita, prima dei fatti manipolano le parole, alterandone e rovesciandone i significati. Si trasformano in totem le parole sbagliate, quelle che in realtà significano altro, e che invece, poiché ostinatamente reiterate, assumono nell’opinione pubblica una valenza positiva e performativa come indicatori di buone scelte politiche. Se non avessimo memoria tanto corta, basterebbe recuperare la distinzione pasoliniana tra sviluppo e progresso per riflettere seriamente su dove stiamo andando, in Italia e nel mondo.

Perché la parola sbagliata non può mai indicare la direzione giusta.

Occorre allora ridefinire un lessico comune, recuperare un minimo comun repertorio etimologicamente corretto e socialmente condiviso. Essere almeno d’accordo su una terminologia di base che ci indichi coerenti e inequivocabili piste di senso. Risemantizzare le parole con cui ci raccontiamo il presente, la crisi e le sue possibili soluzioni. Ammesso che non sia troppo tardi.

La principale mistificazione nella narrazione ufficiale della nostra attuale condizione socioeconomica ruota intorno al termine meritocrazia, di cui oggi, in Italia, si riempiono la bocca spesso proprio i più immeritevoli tra i nostri concittadini, gli esponenti politici. In questo senso, l’uso insistito del termine configura una vera e propria distopia del reale, che la meritocrazia tanto invocata renderebbe massimamente indesiderabile. Con buona pace di Roger Abravanel e dei suoi sodali, meritocrazia non è sinonimo di merito o di meritevole. Meritocrazia significa governo del merito previa determinazione del merito, sul terreno di una competizione spietata tra gli individui.

Un sistema meritocratico è sempre eterodiretto, fondato sul monopolio del metodo dell’accesso al potere decisionale e teso esclusivamente al risultato di una performance giudicata dall’alto o dall’esterno. Può essere – e spesso lo è – un sistema profondamente antidemocratico, poiché la valutazione ha sempre una sua dimensione pre-giudiziale, non neutrale, presupposta, fin dall’individuazione dei suoi criteri, indicatori e strumenti, e quindi può essere – e spesso lo è – discrezionale e arbitraria.

La meritocrazia è un modello oligarchico di governance che può portare con sè iniquità morale e ingiustizia sociale: laddove è evidente una capacità innata e laddove qualunque evidenza è impossibile; laddove l’attitudine e la capacità emergono in un contesto socioculturale che le riconosce e le coltiva precocemente e laddove il riconoscimento è tardivo; laddove il giudizio viene espresso all’interno di una cornice ideologica che ha già precedentemente gerarchizzato la quantificazione e la qualificazione degli indicatori da misurare per la sua attribuzione. Una cornice ideologica condizionata da meccanismi di selezione e di competizione fortemente influenzabili da comportamenti opportunistici, che in America determinano il reticolo delle appartenenze lobbistiche e in Italia si sono declinati, nel tempo, nelle forme assai più primitive del clan.

La meritocrazia declina oggi in chiave economicistica il criterio biologico dell’adattamento del più forte, che non è necessariamente il migliore, introducendo forme di discriminazione socialmente accettabili per legittimare l’eliminazione dei meno adatti agli scopi del neocapitalismo e del mercato globale, unico generatore simbolico non solo di tutti i valori, ma anche degli obiettivi, dei fini, degli strumenti, delle prassi della contemporaneità.

Basta pensare solo per un attimo alla proposta di riforma della scuola immaginata da Renzi e dal suo Governo: una proposta per l’appunto meritocratica, come ha sottolineato la ministra Giannini al termine della consultazione, in cui il preside-manager è chiamato a scegliersi la sua squadra di insegnanti “per giocare la partita dell’istruzione” attingendo all’anagrafe dei “più adatti”. Ovvero, come recita il dizionario, “adeguati, appropriati, idonei, conformi, convenienti, pertinenti, opportuni, confacenti, attinenti, acconci”.

La sostituzione del contratto collettivo nazionale con uno scatto triennale di 60 euro lorde garantito al solo 66% dei docenti viene millantata, nella manipolazione delle parole, come “superamento del grigiore dei trattamenti indifferenziati” e viene posta come precondizione del piano straordinario di assunzioni promesso dal Governo ma imposto dall’Unione Europea.

Dunque, letteralmente, un ricatto: “Questo piano di assunzioni deve poi andare di pari passo con un nuovo modo di fare carriera all’interno della scuola: introducendo il criterio del merito per l’avanzamento e per la definizione degli scatti stipendiali, attraverso un sistema in cui la retribuzione valorizzi l’impegno di ogni insegnante e il suo contributo al miglioramento della propria scuola”.

Come si acquista il merito che dà diritto a rientrare nel novero di chi può aspirare allo scatto? Cumulando – in un innaturale regime di concorrenza tra docenti – crediti didattici, formativi e professionali, in cui campeggiano gli esiti pervasivi dei test Invalsi, da conservarsi in un portfolio vagliato dal Nucleo di Valutazione interno di ogni scuola, a cui partecipa anche un membro esterno. Chi? A che titolo? Con quali finalità?

Il nuovo organigramma, gerarchicamente configurato, della ‘Buona scuola’ del merito, dovrà sorvegliare, misurare, regolare, confrontare, stigmatizzare, giudicare e punire: ecco in che cosa consiste, in questo ambito, l’orizzonte di senso della meritocrazia. Che alla cura della relazione umana preferisce lo sviluppo del ‘capitale umano’; alla valorizzazione dei processi di acquisizione delle conoscenze e dei saperi critici sostituisce l’apprezzamento di ‘competenze’ immediatamente spendibili sul mercato del lavoro; alla riflessione speculativa e metacognitiva contrappone l’ideologia praticistica e utilitaristica dei nuovi paradigmi del‘saper essere’. Cosa?

E’ necessaria davvero una corretta riformulazione delle parole, prima che sia troppo tardi.

Anna Angelucci

(27 novembre 2014)

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Pubblicato da: Cobas Veneto

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