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Dossier Valutazione

da | 2 Giu 2014 | Materiali

La valutazione della scuola. Una riflessione critica a partire dal Rapporto della Fondazione Agnelli

di Donata Miniati

Nel febbraio di questo anno è uscito per Laterza il volume La valutazione della scuola. A che cosa serve e perché è necessaria all’Italia, della Fondazione Agnelli. Il libro è il quarto rapporto dedicato al sistema di istruzione in Italia. Il tema è tra i più scottanti e controversi che coinvolgono il mondo della scuola e, non solo di riflesso, la società e l’economia del nostro Paese.

Riprova di questo interesse è l’attenzione con la quale il volume è stato accolto dai grandi mezzi di informazione e recensito nei più importanti quotidiani, con un corollario di presentazioni istituzionali e interviste sui media. Il direttore della Fondazione, Andrea Gavosto, ha accettato di rispondere ad alcune domande postegli da chi scrive, su alcuni temi cruciali del Rapporto e di questo si darà conto.

Sintesi del contenuto

Il rapporto, ideato e scritto da un gruppo di ricercatori della Fondazione Agnelli, si è avvalso di svariati contributi di docenti e ricercatori di diverse università italiane nonché di dirigenti e funzionari di MIUR, INVALSI, INDIRE. Commenti e indicazioni sono pervenuti da alcune voci autorevoli di Uffici Scolastici Regionali, da un membro della commissione Cultura della Camera (Valentina Aprea), da un ex ministro dell’Istruzione (Luigi Berlinguer) e da dirigenti sindacali CGIL del comparto scuola. Un ventaglio che include diversi orientamenti politici e ideologici, e che potremmo definire abbastanza rappresentativo del “think tank” sulla scuola italiana.

Muovendo dalla convinzione che la valutazione sia necessaria nel nostro sistema per arrestarne la crisi, e che sia il completamento naturale dell’autonomia scolastica, il rapporto chiarisce le premesse concettuali delle tipologie di valutazione, illustra i diversi modelli teorici applicati in altri sistemi di istruzione, definisce per ciascun modello le finalità, i potenziali soggetti e attori, le modalità, gli strumenti tecnici, le risorse messe in campo e ne analizza pro e contro.

Considera quindi il caso italiano, sinora sostanzialmente estraneo alla “cultura” della valutazione, e fornisce elementi per individuare la forma più idonea, riflettendo sui tentativi falliti e sulle sperimentazioni in corso. Infine si addentra nel recente Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione (d’ora in poi SNV), frutto delle scelte che la politica scolastica ha adottato nel merito (chi / che cosa – come – quando – perché valutare).

Lungo il percorso, e nelle conclusioni, emergono i nodi critici e irrisolti, che proiettano la loro ombra sul nascente SNV. Gli estensori, che hanno lavorato nel confortante quadro teorico, chiudono il rapporto con obiettivi ridimensionati e qualche allarmato scetticismo sul futuro compimento dell’impresa, sulla volontà reale dei “decisori” e sulla congruenza delle risorse messe in campo.

Il testo, capitolo per capitolo, è corredato da schede di approfondimento su temi collegati e da una vasta bibliografia.

Perché ne parliamo

Il tema della valutazione è salito alla ribalta negli ultimi quindici anni, parallelamente all’introduzione della cosiddetta “autonomia scolastica” nel sistema di istruzione repubblicano (ministero Berlinguer, 1996) sull’onda delle mode anglosassoni così care ai nostri decisori a corto di visione e di risorse (almeno per la scuola). I successivi tentativi dell’Amministrazione per introdurre forme di valutazione sono stati segnati da limiti concettuali e di comunicazione, e hanno generato conflittualità aspra con il mondo della scuola, fallendo sul nascere.

La mancata chiarezza degli assunti e di condivisione dei percorsi sono stati elementi determinanti in questi fallimenti. Nessun feedback è poi seguito alle “sperimentazioni”, che dopo essere state proposte “a freddo” alle scuole (con fatica si sono trovati pochi soggetti disponibili) si sono perdute nelle nebbie dei faldoni ministeriali, tranne che per gli addetti ai lavori (ricercatori, docenti universitari, appassionati del genere).

I test Invalsi, che hanno visto recentemente la loro settima somministrazione, per ora costituiscono l’unica forma visibile di valutazione realizzata del SNV. Sono tuttora oggetto di resistenze, diffidenze, contestazione, sciopero e boicottaggio, a conferma che il mondo della scuola resta nell’insieme quantomeno esterno se non estraneo all’ operazione. Che tuttavia è proseguita sino all’emanazione del Regolamento (decreto 80 del 28 marzo 2013), del quale per ora nella scuola non si parla. Prosegue, nel metodo, una gestione dei cambiamenti (senza entrare nel merito) che ignora la realtà della scuola, creando la premessa di altri fallimenti, salvo poi addossarne grossolanamente la responsabilità agli insegnanti accusati di rifiutare ogni forma di valutazione, facendo di ogni erba un fascio.

In questo quadro poco confortante il Rapporto della Fondazione Agnelli è un contributo alla comprensione dello stato dell’arte sul tema e un’occasione di approfondimento critico, per acquisire conoscenza e addentrarsi in ciò che potrebbe apparentemente sembrare uno strumento neutro di diagnosi e foriero di terapia.

Si è interrogato il libro, ponendo a confronto assunti e affermazioni, con ciò che si conosce della realtà della scuola, con lo sguardo da “insider” di chi insegna e svolge da anni funzioni “strumentali” nella scuola di base, che è quindi il contesto di riferimento. Si è cercato nelle pagine una risposta a domande urgenti, del resto suscitate dal sottotitolo.

La valutazione è davvero necessaria? Quale idea è sottesa alla nozione di valutazione? E’ davvero la diagnosi-cura risanatrice dei molti mali della nostra scuola? E se sì, è attuabile in tempi utili, modalità razionali e comprensibili, da quali agenzie? Con quali risorse, umane e finanziarie?

Quella che segue, per brevi capitoli, è un’“intervista” al testo, analizzandone i contenuti fondamentali, gli aspetti critici e le relazioni con i nodi del nostro sistema di istruzione .

Che cos’è e a che cosa dovrebbe servire?

Tra gli obiettivi del Rapporto della Fondazione Agnelli vi è quello di chiarire la nozione teorica di valutazione. Viene definita un insieme di processi di misurazione, che include la somministrazione di prove “esterne” (come Invalsi) per ottenere informazioni controllabili sui diversi livelli del sistema di istruzione e sugli attori (insegnanti, studenti,dirigenti). Il fine di questo processo è intraprendere azioni volte al miglioramento del sistema e delle singole scuole. Questo concetto implica inoltre quello di controllo (l’Amministrazione controlla l’operato delle scuole autonome), di rendicontazione (le scuole rispondono alle famiglie che hanno parametri trasparenti per scegliere la scuola ritenuta più adatta ai propri bisogni) e di incentivazione (in base ai fini si decide chi e come incentivare).

Anche senza l’uso delle parole inglesi che abbondano nel testo, capiamo bene di essere entrati in logiche derivate dal mondo del mercato. Che ciò sia condizione di efficacia e efficienza (nel mercato stesso), è indimostrato e anzi contraddetto da svariate vicende aziendali non ignote alla Fondazione Agnelli. Che cosa ciò significhi in un servizio pubblico, nel nostro Paese in particolare, lo possiamo già vedere nel campo della Salute. Che cosa significhi nella scuola possiamo provare a immaginarlo. Del resto, come sappiamo, la scuola dell’autonomia è già stato un passo, seppure all’italiana, verso il mercato.

A quale idea di scuola risponde la valutazione?

Già nelle prime pagine il Rapporto della Fondazione Agnelli chiarisce che un modello valutativo deve corrispondere a un’idea esplicita di scuola (pedagogica, organizzativa e gestionale), che però non è per nulla chiara nella scuola italiana degli ultimi decenni. Condividiamo questa affermazione e aggiungiamo che un’idea di scuola deve essere frutto di scelte di politica scolastica in una visione di lungo periodo nella cornice fondativa della Costituzione.

La carenza di questa idea forte e condivisa echeggia la paralisi e la crisi di pensiero in molti campi istituzionali. Possiamo dire che nella scuola inizia da lontano con l’avvento della scuola di massa. Non vogliamo certo qui aprire una digressione su vicende note, su scelte sovente opportunistiche e di corto respiro che hanno anche sortito come effetto l’impoverimento e la progressiva crisi della qualità dell’istruzione.

Del resto la scuola non è mai stata davvero prioritaria nell’agenda dei decisori politici, e anche quando si sono compiuti atti di “svolta”, difficilmente si è colta una ratio che ponesse in relazione il destino della scuola con quello del Paese, del suo futuro. Ancor meno si è proceduto valorizzando quello che il mondo della scuola ha prodotto, le sue sperimentazioni pluridecennali o comunque mettendo in campo risorse adeguate, in termini economici e di qualificazione e supporto. Non che mancassero gli elementi di conoscenza ai decisori (dati Istat di quadro generale, oltre che quelli del Ministero e delle sue propaggini territoriali) ma si sono seguite altre vie.

Pensiamo alla riforma Moratti, guidata da ideologie revansciste e familistiche, con un occhio sempre al pallottoliere dei conti, e comunque alla fine non applicata. O alla riforma Gelmini, che ha menato fendenti sulle risorse e costretto le scuole ad arrangiarsi con effetti pedagogici destabilizzanti nella primaria (secondarizzazione precoce con alternanza di figure docenti a coprire le ore del tempo scuola) e tagli a compresenze e fondi per supplenze in tutti gli ordini di scuola.

Abbiamo interrogato Gavosto su quanto l’assenza della “cornice” di una chiara idea di scuola possa influire sul sistema di valutazione. Le sue considerazioni confermano che il quadro è tuttora confuso, che si sono avviati processi non condotti coerentemente a compimento e che il sistema non risponde a un disegno definito. Dal suo punto di vista l’unica idea realizzata è stata quella dell’autonomia voluta da Berlinguer, ma anch’essa incompiuta, come d’altro canto il percorso di decentramento di poteri in materia scolastica alle regioni.

Pragmaticamente il Rapporto cerca di svincolarsi dallo stallo, offrendo indicazioni per formulare un’agenda di breve e medio periodo, sulla quale auspica un confronto per avviare un processo di condivisione, perché, come viene detto chiaramente, “senza il consenso della maggioranza degli insegnanti” non vi è uscita per il SNV. Tuttavia, il fatto che il Regolamento sia già definito, ancorché sottotraccia, e questo malgrado, come ha affermato anche Andrea Gavosto, senza attendere la validazione di tutte le sperimentazioni, ci fa credere che i decisori seguano le strade abituali del procedere affrettato. E questo, considerando quanto è implicato in un processo di valutazione, come abbiamo chiarito nel “capitolo” precedente, non può certo rassicurare.

Quale relazione c’è tra valutazione a autonomia?

È un binomio inscindibile e caposaldo dell’intera costruzione, nonché uno degli assunti chiaramente esplicitati nel Rapporto. Vale la pena di riflettere su alcune frasi esemplari.

“… basti ricordare che – in una fase storica in cui lo Stato nazionale tende a cedere parti rilevanti delle sue responsabilità secondo principi di sussidiarietà e decentramento – essa (l’autonomia n.d.r.) è nata sulla convinzione fortemente condivisa (ma non necessariamente verificata) che potesse rendere migliori le scuole e la scuola in generale, nel senso di più efficaci e efficienti”.

“Autonomia, però, chiama valutazione. Prima dell’autonomia avrebbe avuto un senso molto limitato valutare l’operato e i risultati delle singole scuole, mere esecutrici di scelte centralizzate. Se una scuola appariva migliore o peggiore delle altre, questo poteva spiegarsi per la qualità dell’utenza o sulla base della maggiore o minore capacità degli insegnanti, i quali peraltro erano formati, selezionati e reclutati secondo regole assolutamente comuni” (grassetto del redattore)

Ancora dopo aver parlato del curricolo di scuola e della sua rispondenza a quadri di riferimento nazionali:

“Poiché la coerenza e l’efficacia dell’offerta formativa di ciascuna scuola rispetto a questi traguardi non possono essere garantite a priori, è sensato che esse diventino oggetto di verifica, ossia di valutazione”.

Potremmo banalizzare così: poiché il MIUR, con tutto il suo apparato (dirigenti, funzionari, sedi centrali e periferiche…) non riusciva a gestire la scuola e tantomeno a indirizzarla e avere il quadro della situazione, il Ministro ha pensato bene di demandare alle singole scuole una serie di responsabilità decisive sul piano formativo e organizzativo sotto l’ombrello di una convizione “non necessariamente verificata” che ciò potesse migliorare il sistema (che si sia trattato di scelte ideologiche è un sospetto quindi legittimo, n.d.r).

Il Ministero si è ben guardato dal fornire risorse e strumenti, tranne trasformare nel tempo i capi di istituto in dirigenti. È così partita la scuola dell’autonomia, tuttora una creatura informe, che reca in sé però la necessità di un sistema di valutazione, un apparato complesso come vedremo più avanti. La debolezza di pensiero sulla quale si regge tutta la macchina è palese.

Del resto la visione critica del processo di autonomia è condivisa da voci autorevoli. Nello stesso sito della Fondazione Agnelli (che merita di essere visitato per la ricchezza di contributi sui temi della scuola) se ne parla ampiamente. In particolare si segnala un paper del 2009 a firma di Luciano Benedusi, ordinario di Sociologia dell’Educazione alla Sapienza, che ha condotto ampie ricerche nel merito.

Emergono dal contributo gli aspetti incompiuti e contraddittori del processo, che ha prodotto mutamenti più formali che sostanziali (i POF). Si osserva che la progettualità delle scuole generalmente si muove nella sfera delle attività accessorie, rischiando il “progettificio” e la “frammentazione e l’estemporaneità dell’agire delle scuole”. Le aree di “core-curriculum”, si afferma, sono restate sostanzialmente intatte senza produrre miglioramenti tangibili nei contenuti basilari, come confermano i livelli ancora al di sotto della media nelle rilevazioni OCSE-PISA più recenti.

Come ben sappiamo la gestione delle risorse, finanziarie e umane, è rimasta in mano all’amministrazione centrale che le distribuisce con il contagocce, e ogni scuola si arrangia come può nel funzionare, realizzando l’autonomia nell’ingegneria organizzativa che spesso confligge con la coerenza didattica e pedagogica, che è comunque ad essa subordinata. Siamo lontani dalle magnifiche sorti e progressive che l’autonomia avrebbe dovuto produrre, liberando dal giogo della centralità le scuole “mere esecutrici”, come viene affermato nel Rapporto.

Anche su questo assunto ci sarebbe molto da eccepire; nelle scuole vi sono sempre stati ampi margini di libertà educativa e didattica, nell’alveo dei programmi, e varrebbe la pena ricordare che nella lunga fase pre-autonomia, ma in anni ricchi di fervore culturale, si sono realizzate nella scuola, soprattutto di base, esperienze innovative straordinarie, sperimentazioni didattiche della cui rendita viviamo (vivremmo) ancora (tempo frantumato permettendo). Forse accadeva perché gli insegnanti si dedicavano liberamente al loro “core business” senza gabbie organizzative e onerosi compiti accessori, che li hanno trasformati in figure polivalenti a basso costo.

Su questo tema spinoso ci siamo confrontati con Aandrea Gavosto, ponendo una questione che potrebbe sembrare banale. Ovvero quale senso abbia avuto frantumare la scuola della Repubblica in una galassia di autonomie per le quali occorre poi mettere in piedi una macchina complessa per garantirne coerenza, efficacia e, alla luce di standard, omogeneità. E se non sia contraddittorio sostenere che la scuola centralizzata non necessiti di valutazione, come si dice nel Rapporto, dato che la scuola europea centralizzata per definizione, quella francese, abbia storicamente un corpo ispettivo che svolge il suo compito strutturato di controllo.

Sulla prima questione Andrea Gavosto si esprime in coerenza con il Rapporto, ovvero ribadendo che la scuola dell’autonomia è stata un passaggio obbligato per garantire efficienza a un sistema che non era più sostenibile e adeguato ai mutamenti della società, liberando energie ideative e innovative, e rispondendo meglio ai bisogni delle famiglie.

Collegandosi alla seconda questione, Andrea Gavosto ha chiarito la differenza concettuale tra “rendicontazione verticale e orizzontale”. La prima riguarda appunto i sistemi centralizzati che valutano il funzionamento dell’organizzazione e del processo che il centro ha stabilito e che si suppone venga applicato in modo direttivo in ogni istituzione periferica, garantendo così una qualità omogenea. Si tratta quindi sostanzialmente di un controllo delle procedure.

L’autonomia implica invece una rendicontazione orizzontale, che focalizza la valutazione sui traguardi educativi delle singole scuole, in modo trasparente per facilitare la scelta delle famiglie, e con la finalità del miglioramento. Si guarda quindi alla valutazione come al processo che può garantire la qualità di un sistema dove ogni scuola, potenzialmente, può avere un’offerta formativa completamente diversa, inclusi i contenuti dell’insegnamento.

Queste considerazioni non hanno sciolto le nostre perplessità. È difficile concordare sul fatto che la scuola italiana pre-autonomia fosse un sistema monolitico, direttivamente gestito, la cui qualità era garantita dalla formazione omogenea degli insegnanti, dalle procedure analoghe di reclutamento e dai programmi cogenti. Se fosse stato così, non ci sarebbe stata né crisi né necessità di rompere il meccanismo. Almeno dagli anni Settanta, per esempio, formazione e reclutamento degli insegnanti sono stati tutt’altro che omogenei e garanti della qualità.

E le scuole autonome non sono così differenziate tra loro sul piano di contenuti, organizzazione, orari, come abbiamo visto anche nel paper di Benedusi. La scuola è in realtà in un guado, con il front-line (insegnanti e dirigenti) gravato da responsabilità e scelte organizzative spesso emergenziali per carenza di risorse e compresso da “un’utenza – clientela” che non la ritiene più un’istituzione ma un servizio, meglio se “ad personam” e coltiva aspettative e pretese legittime e non.

Dunque il SNV nasce gravato dalle contraddizioni irrisolte dell’autonomia scolastica.

Nel nostro sistema di istruzione vi sono standard per la valutazione?

Come abbiamo visto, l’esistenza di quadri di riferimento nazionali è aspetto fondamentale nella costruzione del sistema di valutazione, che si basa sugli standard per valutare l’operato delle scuole. Nel Rapporto si dedica al tema una scheda di approfondimento, riepilogando sinteticamente la situazione italiana e lo stato dell’arte del dibattito internazionale.

La definizione di standard educativi è tuttora controversa in vari Paesi, e trascina nella discussione teorica anche le competenze. Il Rapporto dichiara che il nostro Paese è in ritardo nell’adozione di standard educativi, avendo per il momento elaborato soltanto le Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo, intese come traguardi di competenze (saper fare, ovvero applicare in contesti diversi le conoscenze).

Abbiamo interrogato Andrea Gavosto per approfondire il tema, anche in relazione a che cosa accade in Paesi affini.

Gavosto ritiene che le Indicazioni costituiscano validamente la cornice dei traguardi di competenza all’interno della quale le scuole e gli insegnanti possono costruire i loro curricoli, con ampi margini per l’innovazione metodologica e di contenuti. Ispirati alle competenze chiave del quadro europeo i traguardi finali delle tappe del Primo ciclo di istruzione, sono prescrittivi. Le aree disciplinari sono definite e articolate per obiettivi. Tuttavia non definiscono gradazioni di livello delle competenze, mentre la tendenza, in altri Paesi europei, è di declinare in modo dettagliato e sistematico conoscenze e competenze, determinando i livelli di padronanza degli allievi in termini operativi .

Per la scuola secondaria la costruzione dei traguardi, dice il Rapporto, “è ancora incerta”, in particolare per quanto concerne il biennio iniziale che conclude l’obbligo.

Potremmo chiudere dicendo che il SNV nel suo insieme manca al momento di una cornice completa alla quale riferirsi e i lavori sono tuttora in corso.

Come si sviluppa nel sistema scolastico italiano il tema della valutazione?

Il Rapporto della Fondazione Agnelli approda al caso italiano nei due capitoli conclusivi, dopo aver analizzato analiticamente i modelli di valutazione nei diversi sistemi di istruzione, dal quasi-mercato (mondo anglosassone, statunitense in particolare) ai sistemi centralizzati.

La situazione italiana viene inquadrata storicamente, con il succedersi delle norme del legislatore, dal dopoguerra a oggi. Emergono dal passato i concorsi “per merito distinto” che consentivano scatti di carriera accelerati e i giudizi di direttori e presidi che influivano sugli scatti automatici. Forme blande di valutazione che si estinguono con i Decreti Delegati e un nuovo stato giuridico che unifica la funzione docente.

Il tema della valutazione scompare dall’agenda sino alla fine degli anni Novanta, quando lo stato giuridico assume caratteri privatistici e nasce la scuola dell’autonomia. Iniziano quindi i tentativi abortiti di introdurre forme di valutazione degli insegnanti in una prospettiva premiale dei “migliori”.

Il primo è il “Concorsone Berlinguer”, che prevedeva una quota percentuale di docenti da valorizzare, dopo un percorso valutativo basato su test, titoli e curriculum, e lezione simulata. La pessima formulazione del test, un quizzone di 100 domande, produsse nei docenti una reazione compatta e acuta di dissenso, che affondò il tentativo, senza che fosse poi riproposto, anche per la caduta del Ministero.

Nell’era berlusconiana il tema torna sul tavolo, nella seconda metà degli anni Duemila, nel quadro della riforma della Pubblica Amministrazione (legge Brunetta) in una logica di stampo aziendalistico (valutazione di performance e incentivi correlati).

Ne derivano una serie di norme complesse, che prevedono forme di valutazione individuale e di istituzioni scolastiche, di docenti e dirigenti, questi ultimi divenuti sulla carta nel 2001 manager a tutto tondo. Ad essi sono attribuite svariate funzioni aggiuntive, con obiettivi da raggiungere, rendicontazioni, relazioni con il territorio, valutazioni dei docenti, leadership educativa e molto altro, all’inglese, si dice nel Rapporto. Questa macchina roboante però, semplicemente, non ha mai funzionato. La valutazione dei dirigenti è rimasta abbozzata (salvo una sperimentazione molto discussa) e a seguire tutto il tuonare non ha prodotto alcuna pioggia.

Il percorso sconnesso e, come dice eufemisticamente lo stesso Rapporto, “non interpretabile con le categorie di linearità e coerenza” arriva alla tappa finale con l’emanazione delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo. Dal premio ai migliori all’incentivazione brunettiana dei performanti si giunge ai più miti consigli della valutazione formativa, esplicitata appunto nelle Indicazioni Nazionali, che adottano la visione “diagnostica” e di miglioramento, in uno sforzo di sintesi che dovrebbe essere incluso nel Regolamento del SNV.

Che dire? Pur ponendosi in una prospettiva di conoscenza con attitudine zen (dovendo rinunciare alle categorie della razionalità che sappiamo poco applicabili alle patrie vicende,) questa breve storia della valutazione in Italia fa emergere le pochezze dei decisori applicate alla scuola.

In parallelo agli ondivaghi tentativi legislativi si evolve, invece, l’idea di un ente valutatore del sistema, che dà vita nel 1999 all’INVALSI, nuova denominazione del CEDE, Centro Europeo per l’Educazione, sorto nel 1974 per documentare e diffondere la documentazione pedagogica-didattica italiana e straniera.

Dalla sua nascita l’INVALSI è oggetto di un’incredibile serie di interventi legislativi in successione, tesi a definirne compiti e funzioni, l’ultimo dei quali del 2013, nel quadro del Regolamento del SNV. Compiti ambiziosi che vanno ben oltre ciò che, negli ultimi sette anni, è diventato visibile al mondo della scuola (predisposizione prove e relativa elaborazione dei dati), sui quali ruota il nuovo SNV (vedere nel sito Invalsi per farsene un’idea!) e in capo a una quarantina di persone. È legittimo dubitare che ci sia confrontati con la realtà.

Come nasce il Regolamento del SNV?

Siamo giunti alla conclusione della nostra indagine tra le pagine del Rapporto, che illustra in modo esauriente la gestazione del neonato SNV e le sue caratteristiche. Lo fa innanzitutto analizzando le sperimentazioni, che si svolgono nel corso dei ministeri Gelmini e Profumo, quest’ultima ancora in corso di validazione.

Le sperimentazioni Gelmini stanno nella cornice meritocratica brunettiana e nascono su premesse teoriche contrastanti (valutare singoli insegnanti o singole scuole?), polarizzate nel comitato tecnico; alla fine si decide di non decidere e si avviano due sperimentazioni distinte. Il tutto avviene nel clima di pesanti tagli all’istruzione, con la palese e motivata ostilità delle scuole.

In una, chiamata Valorizza, si cercano scuole dove i docenti siano disposti a farsi valutare sulla base della “reputazione” da colleghi, DS e “utenti”. Il premio? Una mensilità di stipendio. A fatica vengono trovate 33 istituzioni scolastiche che partecipano e alla fine 267 docenti “eccellenti” vengono premiati. Lo stesso Rapporto esprime riserve sui criteri di questa sperimentazione, che adotta la reputazione per valutare una professione complessa come quella docente. Agli occhi avvertiti appare l’intento di voler piantare la bandierina del premio nel mondo della scuola, a spese di ogni altro criterio di senso.

La seconda, chiamata VSQ (Valutazione Sviluppo della Qualità delle Scuole) mira alla valorizzazione delle performance, ovvero degli apprendimenti e quindi premia le scuole che raggiungono i risultati migliori. Il campione è costituito dalle scuole medie, che avendo alunni i cui apprendimenti sono stati misurati dall’Invalsi in entrata, in fase intermedia e in uscita, sono idonee alla valutazione.

Anche in questo caso il reclutamento delle scuole è difficile e a fatica si individua una settantina di scuole medie, che vengono seguite per un triennio e poste in graduatoria. Nel corso della sperimentazione sono stati applicati meccanismi di valutazione, basati sia sui risultati Invalsi sia su visite di esperti esterni. I risultati Invalsi vengono “corretti” con una formula di calcolo che tiene conto di vari fattori (contesto-caratteristiche individuali) e che produce il “valore aggiunto” delle singole scuole. Con ulteriori formule di calcolo viene stabilita una graduatoria e alla fine alle scuole partecipanti vengono distribuiti, in premi, rimborsi e risorse per piani di miglioramento poco meno di 2.700.000 €. Le graduatorie sono state pubblicate solo a scelta dei partecipanti (alla faccia della trasparenza) e alla fine gli unici risultati visibili sono sul sito dell’USR Lombardia per le scuole in provincia di Pavia e Mantova.

La Fondazione Agnelli ha seguito da vicino la sperimentazione e nel Rapporto si dà conto degli aspetti salienti. Emergono i punti critici, le diffidenze delle scuole verso meccanismi di calcolo statistico poco comprensibile, le ambiguità delle figure degli osservatori, alle quali sono stati affidati compiti contraddittori, la scarsa accettazione delle scuole verso la dimensione premiale, la possibilità di falsare i risultati delle prove con forme di scorrettezza nella somministrazione. In compenso pare che solo per essere state sottoposte all’attenzione, le scuole abbiano raggiunto risultati migliori nelle prove Invalsi.

La terza sperimentazione, ancora in corso, chiamata Vales, si è rivolta anche alla scuola secondaria superiore, ha avuto come oggetto sia le scuole sia i dirigenti scolastici (a differenza della precedente) e ha posto l’accento, nel percorso di miglioramento, all’autovalutazione.

Benché incanalato dalle sperimentazioni, il Regolamento non avrebbe visto la luce in tempi brevi se non vi fosse stata una pressione concreta degli organismi europei, che minacciando il mancato accesso a fondi strutturali, ha preteso l’esistenza di un sistema di valutazione funzionante, nel rispetto di impegni presi dal governo Berlusconi prima delle dimissioni in piena crisi.

Il Regolamento viene varato dal governo Monti e inserito in un documento riguardante i vincoli di finanza pubblica. Ancora una volta si legifera in modo ambiguo e emergenziale, al di fuori di un disegno condiviso e comprensibile per il mondo della scuola.

Come è strutturato il Regolamento del SNV ?

Per meglio comprendere le coordinate di questa disposizione che dovrebbe imprimere l’ennesimo colpo di timone, ma in assenza di nocchiero, alla scuola, consideriamo gli aspetti fondamentali.

Che cosa valuta? Le scuole e i dirigenti.

Quali sono gli enti costitutivi del SNV? INVALSI-INDIRE-CORPO ISPETTIVO

Come valuta? Con una procedura in quattro fasi:

Autovalutazione delle scuole (sulla base dei risultati Invalsi, di dati ministeriali e di elementi rilevanti a giudizio della scuola stessa)

Valutazione esterne di nuclei ispettivi con esperti Invalsi

Azioni di miglioramento successive ai risultati della valutazione ad opera delle scuole con l’assistenza di Invalsi, università, enti di ricerca, associazioni.

Rendicontazione, con pubblicazione dei risultati

Come favorisce il miglioramento? Premiando o punendo i Dirigenti Scolastici.

Con quali risorse? Da una quota del fondo per enti e istituzioni di ricerca, di cui non si conosce entità e continuità

Si comprende bene ora perché lo stesso Rapporto definisca “velleitario e ambizioso” questo Regolamento.

I pilastri costitutivi su cui si fonda sono minati da vizi originari: o sono sovraccaricati di compiti rispetto alle possibilità (Invalsi), o ne hanno di generici per ricerca e supporto alle scuole (Indire), un ente che brilla per la sua presenza virtuale, fatta di piattaforme e archivi e per saltuarie tornate di corsi, per il resto lontano dalla vita della scuola. Il terzo semplicemente non c’è, essendo al momento il corpo ispettivo esiguo, soprattutto per un programma di visite a tappeto nella miriade di scuole italiane.

Le potenziali azioni di autodiagnosi e di follow-up, “ il miglioramento”, sono sostanzialmente affidate alle scuole, al front-line di nuovo, con un ulteriore attribuzione di compiti integrati da improbabili supporti, il come e il quando tutto da definirsi. Possiamo realisticamente immaginare come le scuole problematiche riescano a elaborare autodiagnosi e a uscirne con i loro mezzi? Possono dirigenti e soprattutto insegnanti affrontare tutto questo senza adeguata formazione, in un percorso certo non improvvisato e in tempi adeguati?

Sull’incentivazione dei dirigenti anche il Rapporto si mostra perplesso. I Dirigenti Scolastici senza il concorso dei docenti non possono attivare alcun processo, né di autovalutazione né di miglioramento, qualunque premio ricevano. La collocazione degli insegnanti in questa costruzione è uno dei maggiori punti deboli: sono visti come volonterose pedine, dribblando così tutti i nodi irrisolti dove si sono insabbiati i precedenti tentativi di valutazione.

Per concludere, la vaghezza sulle risorse, che in uno sforzo reale mirato al miglioramento dovrebbero essere ingenti, conferma tutti i dubbi sulla realizzabilità di questa operazione.

Conclusioni

Nelle conclusioni il Rapporto, facendo il bilancio delle difficoltà incontrate negli ultimi quindici anni, affronta la questione provocatoriamente: della valutazione si può fare a meno. A patto che, come ad esempio in Finlandia (e non solo, n.d.r), la qualità alta della scuola sia garantita da una rigorosa selezione, formazione iniziale e continua degli insegnanti, che godono di prestigio sociale e riconoscimento. Questo, unitamente ad altre scelte di politica scolastica, genera circoli virtuosi che tengono alto il livello del sistema.

Tuttavia, per il Rapporto, intervenire sulla formazione e il reclutamento degli insegnanti chiede troppo tempo e non si può attendere, pena un ulteriore declino della scuola pubblica. Quindi venga pure la valutazione per capire dove sono le criticità avviando un processo diagnostico che possa innescare cambiamenti di rotta e motivazione al miglioramento.

Si cerchi il consenso degli insegnanti, si ascoltino le osservazioni del mondo della scuola, si apra un dibattito sull’idea di scuola, si perseveri nelle scelte, si prevedano incentivi di carriera, si premino le scuole migliori con margini crescenti di autonomia e si vincolino quelle in difficoltà a sottostare alla tutela delle indicazioni del ministero (sarebbe una vera novità! ndr).

E poi il messaggio finale ai decisori: si faccia in fretta e si mettano in campo le risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi dichiarati. Molte esortazioni quindi, alcune sorprendenti perché ci rimandano alla casella del via: l’idea di scuola? Ma se abbiamo già un Regolamento!

Ci siamo sin qui limitati a pochi commenti, preferendo entrare nel merito del tema e cercare di porre in luce i fondamenti, gli sviluppi e l’esito concreto dell’idea di valutazione, seguendo la traccia del Rapporto. Ci pare alla fine che, da soli, gli aspetti deboli, irrisolti, velleitari siano saliti a galla e siano molti.

La cura scelta per la crisi della scuola italiana appare tortuosa e forzata.

Ci sembra che il modello adottato sia macchinoso e lontano dal realizzarsi in tempi brevi, privo di risorse coerenti, umane e finanziarie. Che poggi su premesse deboli e carenza di visione d’insieme. Che non sia stato condiviso con il mondo della scuola.

Che si assuma di partire da zero per migliorare quando invece esistono masse di dati sulle criticità della scuola italiana, territoriale, strutturale, organizzativa sulle quali da tempo si sarebbe dovuto e potuto agire. Che si procrastini ancora il confronto con aspetti basilari, come quello della formazione rigorosa e del reclutamento dei docenti.

Ci sembra che la visione “migliorativa” del processo ignori del tutto i vincoli di risorse che obbligano nella realtà le scuole a forme di organizzazione inefficaci sul piano didattico.

Che si affidino altre funzioni (e quali!) agli insegnanti senza alcuna modifica condivisa e coerente del loro statuto professionale e contrattuale, in particolare in merito alle figure strumentali e di progetto. Che si crei un altro apparato burocratico che l’Amministrazione gestirà alla sua inefficiente maniera.

Attendiamo di essere smentiti. Avremmo voluto essere convinti, perché ci riteniamo civil servant e lavoriamo per tenere alto il valore dell’istruzione pubblica. Nessuna proposta coerente, credibile, dignitosa può vederci contrari a priori, l’opposizione è nata da progetti, si è ben visto, mal concepiti.

Domani andremo nelle nostre scuole ad affrontare con i nostri mezzi le criticità a noi ben note. Nel frattempo il Regolamento del SNV giace, un altro tassello della scuola di carta.

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Per urgenze chiamare il 347 9901965 (Carlo)

I comitati di base della scuola sono un sindacato di base nato negli anni ’80 e che da allora opera nel nostro territorio e nel territorio nazionale, con docenti e A.T.A. volontari – precari e non – disposti a mettersi in gioco.

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