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DISPERSIONE. Gli adulti si impadronano della nostra vita

da | 17 Gen 2012 | Materiali

Gli adulti si impadronano della nostra vita

di Carla Melazzini da lapoesiaelospirito

Per quanto difficile sia assumere il punto di vista di un altro molto diverso da noi, cercherò di descrivere l’esperienza di un alunno del biennio superiore attraverso i suoi propri occhi, fondandomi sull’osservazione quotidiana (e, spero, empatica) di quanto egli comunica con le parole, ma soprattutto con i suoi gesti e comportamenti.

Il ragazzo che entra in un istituto tecnico superiore porta sulle spalle dagli otto agli undici anni di scuola, che hanno agito su di lui in un triplice modo.

* Primo modo: spegnendo progressivamente quello che nel bambino è il bene più prezioso: la curiosità e il piacere di conoscere. (All’inizio di quest’anno ho chiesto alle due classi del biennio – una cinquantina di ragazzi dai 13 ai 18 anni – di formulare dieci perché che rivestissero ai loro occhi una importanza fondamentale. Il risultato mi ha lasciata stupefatta: il contenuto e soprattutto la formulazione dei perché erano quelli del bambino che si affaccia sul mondo ignoto: perché il mare è salato e infinito; perché la terra è rotonda e gira; perché il cielo è azzurro; perché si nasce; perché si muore; perché esistono tante lingue diverse; perché gli uomini sono così cattivi, e così via, come se fosse la ripresa di un discorso lasciato interrotto e senza risposte tanti anni prima).

* Secondo modo (in gran parte responsabile di quanto esposto nel punto precedente): trasformando la realtà viva in materie scolastiche che evitano le domande del soggetto e sono appannaggio inalienabile del docente, e sottraendo alle parole pressoché ogni rapporto con la realtà stessa.

* Terzo modo (che è la conseguenza naturale dei primi due): convincendo il ragazzo che per ciò che sta facendo a scuola non valga la pena di assumersi la fatica e il rischio insiti in ogni serio apprendimento.

Il risultato di questo triplice processo viene rovesciato addosso al ragazzo in forma capovolta, ossia: non sei disposto ad impegnarti ad apprendere le materie scolastiche che danno accesso alla conoscenza della realtà, cioè non sei scolarizzato né scolarizzabile.

Così recitano, nella sostanza, gli atti ufficiali che destinano i ragazzi o all’“inserimento immediato nel mondo del lavoro” (ineffabile eufemismo, specie nelle nostre contrade), o alle scuole di categoria B, professionali e tecnici.

Vale la pena notare come, viceversa, nessun documento ufficiale certifichi la qualità del servizio di cui ha usufruito il ragazzo licenziato dalla scuola dell’obbligo. Non risulta, ad esempio, quanti e quali insegnanti abbia incontrato sulla sua strada: ho avuto non pochi alunni che hanno adempiuto all’obbligo cambiando un insegnante, a volte due, all’anno dalla prima elementare.

Ora, mentre il ragazzo viene continuamente chiamato, dalla famiglia e dalla scuola, a rendere conto delle sue mancanze, nessun esemplare del mondo adulto – a quanto mi risulta – è tenuto a rendere conto al ragazzo per i suoi diritti violati o negati.

Questa dissimmetria, che ferisce profondamente il senso di giustizia dell’adolescente, a lungo andare produce in lui una immedicabile sfiducia nella possibilità che gli venga resa ragione, e la conseguente convinzione che l’unica difesa per lui sia la fuga.

Ma il danno è ancora più profondo. La mancanza di significato di ciò che quotidianamente viene costretto a fare a scuola pone il bambino prima, il ragazzo poi, in un dilemma angoscioso: o la sua intelligenza lo inganna; o gli onnipotenti adulti sono dei falsari. Non permettendogli la sua fragilità psicologica di accettare la seconda ipotesi perché troppo pericolosa per lui, si rassegna ad accettare la prima, adeguandosi pian piano all’insensatezza.

Questo è il motivo per cui spesso i ragazzi meno scolarizzabili sono i più intelligenti.

Questo alumnus così malamente nutrito approda dunque al suo terzo ciclo di studi, sulla base degli inossidabili automatismi di status socio-culturale della famiglia e di profitto standard, che poco o nulla hanno a che vedere con le sue reali attitudini e aspirazioni.

Il ragazzo che sceglie gli istituti tecnici e professionali ha già addosso mediamente un buon bagaglio di delusioni e fallimenti, addebitati come si è detto a sua esclusiva colpa. Tuttavia la naturale plasticità dell’individuo giovane lo predispone a tentare l’avventura, e lo fa con un misto di diffidenza e di ansia, a volte con angoscia, quando la scuola superiore sia vissuta come ultimo banco di prova di una fragile autostima, già duramente scossa nei cicli precedenti.

Al suo ingresso nella sconosciuta comunità della nuova scuola il ragazzo, che sta attraversando la tempesta puberale, è pieno di interrogativi del tipo: sarò accettato o escluso? Riuscirò a farmi capire dai nuovi insegnanti? I compagni mi apprezzeranno o mi perseguiteranno? Rideranno di me perché ho il naso grosso; sono troppo piccolo, o troppo alto, o troppo chiatto?

Stendiamo un velo pietoso sulla qualità dell’accoglienza che la scuola superiore riserva ai corpi dei propri utenti (non occorrono manuali di psicologia per sapere quale posto abbia il corpo nei pensieri di un adolescente: basta fare il censimento degli insulti che i nostri alunni si cambiano incessantemente al riguardo).

Limitiamoci a considerare ciò che la scuola offre alla loro psiche.

Agli interrogativi che affollano l’animo del ragazzo l’istituto superiore oppone il fuoco di sbarramento delle sue ancor più numerose ed eterogenee materie e degli altrettanto eterogenei insegnanti, andando a formulare un risposta del tipo: qui non è scuola dell’obbligo, nessuno ti ha costretto a venire, siamo qui per giudicare se ne sei degno; compito tuo dimostrarlo.

Si mettono così in moto due logiche incomunicanti. Mentre il ragazzo dedica la maggior parte delle sue energie psichiche alla difficile opera di adattamento e integrazione nella classe, la scuola procede imperturbata fino all’esito scontato di fine quadrimestre.

Il quadro sconfortante che ne esce ha un duplice effetto:

* conferma gli insegnanti nella loro opinione che la scuola dell’obbligo produce analfabeti e che occorre una bella pulizia per impedire che accedano al triennio. Sennò che diranno i colleghi di noi?

* consolida nei ragazzi la convinzione che ciò che per loro è estremamente importante non lo è affatto per gli adulti; che gli sforzi per fare di una classe una comunità vivibile non sono ritenuti degni di nota in una istituzione educativa; che a scuola va bene chi già andava bene, e per gli altri non c’è niente da fare.

Tant’è che il periodo successivo all’uscita dei quadri del primo quadrimestre è quello segnato dagli abbandoni, che si aggirano tra il 10 e il 25% degli alunni.

La classe vive questi abbandoni come una propria sconfitta, e riprende con più fatica e meno coraggio a ritessere i fili lacerati.

Benché la mia opinione sulla scuola sia pregiudizialmente la più sfavorevole, non riesco mai a non scandalizzarmi per il trattamento che essa riserva al gruppo classe, comunità fragile ma fondamentale, soprattutto per l’adolescente: in generale, perché – come è noto – il gruppo dei coetanei è l’unico punto di appoggio nella sua faticosa lotta per l’autonomia personale; in particolare perché, nelle condizioni di vita delle nostre città, la classe scolastica costituisce spesso l’unico gruppo di coetanei sufficientemente strutturato e significativo cui far riferimento.

Su questa cellula di base della vita scolastica infieriscono concordemente senza rispetto i sacri principi della selezione per merito, delle graduatorie di anzianità degli insegnanti e del deficit statale, con risultati che a me fanno ogni volta l’effetto della lacerazione di corpi vivi.

La prassi della bella pulizia al termine del primo anno (che si aggira attorno al 50% di bocciati, salvo che predomini la paura degli insegnanti di perdere il posto) fa sì che il nuovo ragazzo proveniente dalla scuola media si trovi in un gruppo classe segnato dalla massiccia presenza di ripetenti e pluriripetenti, che portano il marchio dell’insuccesso e sono concentrati nell’ardua impresa di tenere alto il rispetto di sé nel proprio intimo e davanti ai nuovi arrivati, parecchi dei quali tredicenni, cioè quasi bambini: naturale che il problema venga quasi sempre risolto sul piano della forza, il più accessibile ma anche il più distruttivo per chi lo esercita.

Ciò complica non poco il problema dell’integrazione della classe, accentuando le dinamiche centrifughe rispetto a quelle costruttive.

Ho avuto classi nelle quali le dinamiche di gruppo erano così negative da invalidare ogni possibilità di lavoro, sfociando a volte in fuga di massa. Ricorderò solo la più comune tra esse, quella del capro espiatorio…

Non sono sufficientemente esperta per individuare con chiarezza i fattori che possano rendere tali dinamiche distruttive della classe come collettivo di lavoro…

Chiedo: quanto spazio riserva la nostra scuola a tutte queste cose che occupano l’animo dei suoi utenti, impegnandone buona parte delle energie psichiche?

Moltissimo ne dedica sicuramente al trattamento dei sintomi di questi malesseri, sotto forma di rapporti disciplinari, sospensioni, prediche moralistiche: con gli effetti che possiamo constatare, non solo sulla produttività dell’insegnamento/apprendimento, ma soprattutto nella formazione di personalità esposte per anni, nelle fasi più delicate dello sviluppo, ad una simile pedagogia.

Ho fatto recentemente una lunga discussione con i ragazzi sui riti di iniziazione, che accompagnavano i giovani nel loro ingresso nel mondo adulto in società che chiamiamo primitive.

Se unanime è stato il loro rifiuto delle torture fisiche alle quali gli iniziandi venivano sottoposti, altrattanto unanime era stata la denuncia dello stato di minorità, estraneità, e insignificanza nel quale i giovani vengono tenuti oggi dalla società adulta; denuncia sintetizzata nella magnifica frase che il più analfabeta della classe ha distillato nella sua misconoscenza della grammatica: “gli adulti si impadronano della nostra vita“…

La mia esperienza di insegnante mi ha insegnato a sospettare che il mondo adulto si specchi negli occhi dei nostri adolescenti come una gigantesca menzogna.

Se il sospetto non è infondato, e penso che non lo sia, ho l’impressione che nelle nostre aule scolastiche si consumi quotidianamente un disastro di lunga durata, che nessun Pubblico Ministero con nessun avviso di garanzia potrà, temo, sanare.
(da Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca (a cura di Cesare Moreno), Sellerio, pagine 258, euro 14,00)

* * *

Materiali

Giacomo Cives, docente emerito di Storia della Pedagogia all’Università La Sapienza di Roma: «Raramente le bocciature spingono a migliorarsi, il merito va incoraggiato, premiato, ma per chi è in difficoltà bisogna applicare – come diceva Maria Montessori – una ‘educazione dilatatrice’, dare di più, portare dentro, non spingere fuori, con il rischio che gli espulsi abbandonino per sempre il percorso scolastico». (vedi qui)

Matteo Lancini, docente di Psicologia dell’Adolescenza all’Università Bicocca di Milano: «La sensazione è che il mondo adulto stia cercando di riprendere il controllo su una generazione che sente di non saper governare. Ragazzi abituati al confronto, alla dialettica, non all’autorità. Più fragili per certi aspetti, più forti per altri. Ma non si può passare dalla scuola del dialogo e dell’accoglienza, a quella dei divieti e del 5 in condotta senza conseguenze. Mi spiego: in altre epoche la bocciatura faceva parte di un percorso educativo, i ragazzi la mettevano in conto, sapevano sostenerla. Oggi no. La vergogna di essere respinti, la mortificazione di non essere all’altezza possono compromettere per sempre il percorso di un adolescente. Forse ci dobbiamo interrogare su questa fragilità, ma di certo la risposta non può essere quella di tornare da un giorno all’altro alla scuola della paura e delle sanzioni». (vedi qui)

Tullio De Mauro, docente di Linguistica generale all’Università di Roma: “La mancanza di orientamento è la vergogna scolastica nazionale. Il vero problema sono gli adulti, i quali dovrebbero aiutare i bimbetti tredicenni a scegliere: secondo le ultime indagini, il 19,8 per cento dei grandi non possiede i requisiti minimi per orientarsi nelle decisioni, e addirittura il 41 per cento fatica a decifrare uno scritto, anzi una scritta. Formare gli adulti dovrebbe essere la prima preoccupazione” (vedi qui)

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I risultati scolastici sono correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine
Se è vero che l’introduzione dell’obbligo scolastico ha annullato le differenze sociali nel conseguimento della licenza media, lo stesso non si può dire per il conseguimento dei titoli superiori, dove continua invece a pesare una forte disuguaglianza legata alla classe sociale della famiglia di provenienza degli studenti. Infatti, i dati confermano che i figli delle famiglie più abbienti prendono voti più alti. I risultati scolastici sono, dunque, correlati all’estrazione sociale della famiglia di origine. Quelli meno soddisfacenti si riscontrano più spesso nelle famiglie operaie (36,5 per cento) e in quelle in cui la persona di riferimento è un lavoratore in proprio (42,5 per cento). (vedi qui)

L’abbandono scolastico precoce frena lo sviluppo economico e sociale
In Italia i ragazzi che abbandonano precocemente la scuola, con al massimo un diploma di terza media, rappresentano una percentuale sul totale, pari al 19,2%, superiore alla percentuale media relativa all’intera Unione europea (14,4%). Questi giovani hanno grosse difficoltà a trovare un lavoro e sono più spesso disoccupati e dipendenti dall’assistenza sociale. L’abbandono scolastico precoce frena lo sviluppo economico e sociale e ostacola il raggiungimento dell’obiettivo dell’Unione europea di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. La Commissione ha approvato un’iniziativa per ridurre entro la fine del decennio a meno del 10% il tasso di abbandono scolastico. (vedi qui)

Bocciare costa
Bocciare costa oltre il 6% in più della spesa complessiva messa a disposizione per l’intero percorso scolastico di uno studente. Secondo le statistiche, il costo di uno studente regolare è in media 88.700 euro, cifra che sale a 109.420 euro se si prosegue gli studi fino al diploma di scuola superiore. I costi, però, possono lievitare se lo studente viene bocciato, addirittura arrivare alla maturità con due bocciature costa fino al 12,6% in più rispetto ad un percorso normale. (vedi qui)

Abolire le bocciature?
Il ministro austriaco dell’Istruzione ha annunciato l’intenzione di abolire le bocciature a partire dal 2012 per le scuole superiori. Il che non vuol dire tutti promossi e una bella estate di relax in regime di par condicio per secchioni e somari. Il ministro — la socialdemocratica Claudia Schmied — ha spiegato che la bocciatura andrebbe sostituita da corsi di recupero nelle materie in cui i ragazzi non hanno raggiunto la sufficienza. Ma a settembre nessuna notte prima degli esami: in ogni caso si passa all’anno successivo. Perché una proposta del genere? Il ministro dice che molto spesso la bocciatura è il primo passo verso l’abbandono degli studi. E questo non è un problema solo del bocciato ma del Paese intero perché la scuola non è riuscita a portare un ragazzo fin dove dovrebbe. Un’idea strampalata o addirittura pericolosa? In realtà già funziona così in Norvegia, Islanda e Gran Bretagna. Certo, sono Paesi con una cultura ed un rigore molto diverso dal nostro, ma sempre di Europa parliamo. Da noi sarebbe possibile? (vedi qui)

Occorrono organici rinforzati e un impegno economico straordinario
La lotta alla dispersione passa, oggi più che mai, attraverso tempo scuola e organici rinforzati. Bisogna recuperare le migliaia d’insegnanti spazzati via dalle scuole, piuttosto che operatori esterni su progetto. Puntare su questi ultimi, a scapito dei primi, sarebbe un grave errore. Potenziare alcuni insegnamenti in un tempo scuola ridotto all’osso, creerebbe solo squilibri senza risolvere il problema di fondo, che rimane quello di un’offerta formativa divenuta sempre più povera e disarticolata. Se il governo vuole ridare all’istruzione pubblica il ruolo strategico che le compete, deve pensare a un impegno economico straordinario e senza precedenti. Certo, dovrà pretendere molto di più dagli insegnanti e dagli altri operatori. Il problema non è di reclutarli daccapo. Al concorso annunciato, ai tfa, ai corsi di abilitazioni e lauree abilitanti, continueranno a partecipare le stesse decine di migliaia di persone che stanno nelle diverse graduatorie e/o che hanno titoli a iosa. Il problema è il recupero di posti stabili che non ci sono. Il problema è la formazione in servizio, l’organizzazione del lavoro da rivedere profondamente, nuove regole, orari e responsabilità: per tutti e non solo per le nuove leve.

altre info e spunti (vedi qui)

Cobas Veneto

Pubblicato da: Cobas Veneto

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