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Differenze salariali (uomo-donna)

da | 12 Mar 2024 | Discussione, Materiali, Senza categoria, Webpress

di AA.VV.

Riportiamo qui alcune considerazioni sul gap retributivo tra donna e uomo nei vari settori, nonche le percentuali di occupazione al femminile negli stessi. Sono una estrpolazione da un lavoro di ricerca prommosso dalla rivista online lavoce.info, commentate e riportate dal giornale web ilpost.it. Ci sembrano interessanti da leggere in particolare dopo lo sciopero trasfemminista indetto da varie OO:SS: per la giornata dell’8 marzo. G.Z.

Le ragioni di questo divario sono molteplici e connesse tra loro, ma semplificando molto si possono ricondurre a quattro categorie: la prima riguarda la cosiddetta “segregazione orizzontale”, per cui le donne scelgono soprattutto settori lavorativi in cui gli stipendi sono di per sé più bassi, a prescindere dal genere; la seconda è la “segregazione verticale”, che definisce le minori opportunità di carriera per le donne rispetto agli uomini e la difficoltà per loro di ottenere promozioni e posizioni più alte; la terza riguarda il fatto che tra congedi parentali, maternità, aspettative, part-time e contratti a tempo determinato le donne lavorano ogni anno meno ore dei colleghi maschi, dunque vengono pagate di meno in assoluto; una quarta consiste nella quota residuale che i ricercatori non si riescono a spiegare, probabilmente costituita anche dalla scelta arbitraria dei datori di lavoro di pagare meno le donne degli uomini.

La prima categoria, la “segregazione settoriale”, è confermata da diversi dati. Secondo l’Eurostat, in Unione Europea il 92 per cento dei lavori di assistenza all’infanzia è svolto da donne, così come l’89 per cento dei lavori di segreteria e di insegnamento nella scuola primaria e nei nidi. L’87 per cento delle infermiere e delle ostetriche sono donne, e l’86 delle addette alle pulizie e delle collaboratrici domestiche.

Anche in Italia le donne sono nettamente prevalenti in settori come la sanità e l’istruzione, in cui le retribuzioni sono più basse.

Il fatto che le donne facciano questi mestieri non dipende solo dalle preferenze dei singoli individui, ma dal fatto che le donne come genere e gruppo siano più portate a sceglierle per fattori culturali e sociali. Sono gli stessi fattori che nella scelta del percorso di studi le tengono lontane dalle cosiddette lauree STEM, ossia quelle scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche, che dopo gli studi peraltro offrono prospettive migliori di carriera e guadagno.

Secondo un’analisi del sito lavoce.info le donne tendono a evitare i percorsi STEM, e a scegliere percorsi umanistici e di studi sociali, principalmente perché dopo temono di imbattersi in ambienti ancora maschili, perpetuando così lo squilibrio. Alcune ricerche mostrano che, per esempio, «negli ambienti professionali gli stereotipi riguardanti le abilità, gli interessi e i ruoli sociali di uomini e donne possono manifestarsi come pregiudizi nelle decisioni di assunzione e promozione, ostacolando l’avanzamento di carriera e le opportunità»: in questi settori si assumono e si promuovono meno le donne perché si crede che possano rendere meno. Alcuni studi citati mostrano che questi stereotipi non solo portano alla scelta più frequente di uomini per attività che hanno a che fare con la matematica, ma anche che tengono le donne lontane da queste discipline perché loro stesse sono portate a pensare che non avranno mai lo stesso successo degli uomini se intraprendono percorsi di studio STEM.

Secondo Casarico c’è un ulteriore aspetto della segregazione settoriale, ossia quella nelle imprese: le donne si ritrovano più spesso in aziende meno competitive, che pagano meno tutti i lavoratori. Questo dipende anche dal fatto che spesso le donne, dovendo prendersi cura della famiglia, sono costrette a scegliere lavori che possono fare senza allontanarsi troppo da casa, limitando notevolmente le proprie opportunità e portandole con più frequenza a doversi accontentare.

Per quanto riguarda la segregazione verticale, invece, in Italia nel totale dei lavoratori dipendenti le donne compongono il 58,4 per cento delle posizioni impiegatizie e solo il 21 di quelle da dirigenti. Carriere che le limitano in posizioni più in basso nelle gerarchie limitano anche i loro guadagni, che sono dunque in media sistematicamente più bassi di quelli degli uomini.

La terza categoria citata, il fattore tempo, si deve al fatto che alle donne è ancora demandata la gran parte delle attività di cura della famiglia. Lo stesso congedo di maternità, per cui l’INPS garantisce il pagamento dell’80% dello stipendio, abbassa le retribuzioni annue delle donne con figli.

Il loro “svantaggio” sul lavoro non è solo associato al periodo della maternità e soprattutto non è solo rispetto ai colleghi maschi, ma anche alle colleghe senza figli. Casarico è autrice di uno studio secondo cui a parità di età, competenze e reddito da lavoro iniziale, la retribuzione annua delle donne con figli a quindici anni dalla nascita del primogenito è in media circa la metà di quella delle donne senza figli.

Questo divario è dovuto soprattutto al fatto che le donne con figli finiscono per lavorare meno ore, per esempio perché passano a contratti part-time. Nel 2022 secondo dati INPS in Italia il 47,7 per cento delle donne ha contratti part-time, a fronte del solo 17,4 per cento degli uomini: la percentuale tende a salire nettamente nelle regioni del Sud (in Calabria due terzi delle lavoratrici hanno contratti part-time). Ma anche quando lavorano a tempo pieno le donne sfruttano di più strumenti legati all’accudimento dei figli come i congedi e le aspettative, che riducono il numero di settimane retribuite ogni anno.

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Redazione Cobas e Cesp Veneto

Pubblicato da: Redazione Cobas e Cesp Veneto

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