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Modello Finlandia, la scuola senza voti

da | 27 Dic 2023 | Discussione, Materiali, Webpress

di Andrea Capocci da il manifesto.it

Molte volte abbiamo scritto, discusso di valutazione, di voti, di INVALSI. Vi abbiamo scioperato contro, invitato a boycottarne le prove, ci siamo interrogati in diversi convegni-seminari del CESP.
L’INVALSI è diventato di sistema, il riferimento base per valutare apprendimento e competenze degli studenti (e degli insegnanti), proprio quello che abbiamo denunciato e denunciamo.
Tale modalità valutativa è stata messa in discussione nei paesi anglofoni dove è germogliata e cresciuta a fronte dello scadimento generale della formazione e preparazione delle nuove generazioni di studenti. Nelle linee guida per la scuola primaria qualcosa si è mosso.
Se è un ripensamento, diciamo – da inguaribili ottimisti – con il fu Maestro Manzi “No è mai troppo tardi”
. G.Z.

Modello Finlandia, la scuola senza voti è una scelta politica

Intervista a Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’università di Roma Tre e fautore della «valutazione educativa»

Ha sorpreso la decisione di chiudere la cosiddetta «sezione finlandese» del Liceo «Morgagni» di Roma, assunta con una maggioranza di un solo voto dagli stessi docenti. Era la sezione in cui, al posto dei voti, ragazze e ragazzi ricevono suggerimenti su come migliorare le proprie competenze come avviene nel paese scandinavo in testa a tutte le classifiche sugli apprendimenti scolastici. Per qualcuno si è trattato di un sano ritorno a una scuola «seria», in cui il cliente – pardon, lo studente – non ha sempre ragione. Per altri un cedimento al vento restauratore che tira sulla scuola da quando al governo c’è l’estrema destra. Per gli esperti dei sistemi scolastici, in realtà, la valutazione numerica è da tempo oggetto di profonda critica. Tra i principali fautori della scuola senza voti c’è ad esempio Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’università di Roma Tre e autore de La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto (FrancoAngeli, 2023).
La scuola dovrebbe preparare soggetti in grado di mettere in discussione lo stato di cose presente. Ne trarrebbe beneficio anche il mondo del lavoro
«L’espressione “scuola senza voti” però non mi piace» esordisce con il manifesto. «Innanzitutto, alla fine del quadrimestre i voti ci devono essere perché li impone la legge. In secondo luogo, della proposta didattica non sottolineerei cosa manca, ma quello che ha in più. È una scuola che usa la valutazione in modo più rigoroso per orientare l’apprendimento e la didattica».

Cosa significa valutare per educare?
La valutazione dovrebbe arricchire le esperienze di apprendimento successive. A volte invece la valutazione finisce per impoverire le future esperienze, e forse ha proprio quell’obiettivo. Nel biennio della scuola secondaria c’è la più alta percentuale di bocciature. Troppi docenti dicono «la scuola non è fatta per te» e la valutazione viene usata per fornire evidenze a questo scopo e per garantire la «classetta buona» dal terzo anno in su, magari in modo inconsapevole. Altri docenti usano la valutazione per comprendere meglio il livello degli apprendimenti e arricchire la didattica. Ma significa passare da un’idea di scuola a un’altra. Il nodo della valutazione è interamente politico: o valuti per impedire che gli studenti proseguano il loro percorso o per fare il possibile perché vadano avanti e apprendano.

Cinquanta docenti del Morgagni hanno difeso la «valutazione numerica», le cifre che «indicano i chilometri fatti e quelli ancora da fare» e hanno criticato la scuola in cui «bisogna dare pochi compiti ed evitare lo stress». Qualcuno, più prosaicamente, dice che nella scuola senza voti non si studia.
La lettera dei cinquanta docenti segnala la difficoltà di convivenza tra due modi di vedere la scuola. La visione più conservatrice mi sembra anche quella che non trova le parole per spiegare ciò che fa e preferisce ricorrere ai luoghi comuni. In realtà non è una scuola più facile, anzi: gli apprendimenti sono più complessi. Forse è più facile che gli alunni apprendano, perché la valutazione evita alcuni elementi tossici che complicano l’apprendimento come la competizione o il controllo burocratico sugli studenti. Tutti elementi comprensibili nella scuola di oggi, perché i docenti temono di non poter rendicontare il loro lavoro come prevede la legge. Ma le norme parlano di «valutazioni» e di «prove di verifica», non di voti.

Sono temi noti da decenni alla ricerca pedagogica. Come mai incontrano ancora resistenze?
Significa smontare la routine classica dell’insegnamento: spiego, interrogo, do il voto. Il processo invece diventa più complesso: alla spiegazione segue un’attività e poi una scelta su come procedere. Non si è affermato per alcune motivazioni strutturali: serve una buona competenza metodologico-didattica, tempi distesi e spazi ampi. Inoltre, spesso si arriva all’insegnamento dopo un percorso di precariato che penalizza la formazione iniziale. Infine c’è il problema del prestigio della professione, a cui in tanti arrivano come ripiego: ma la qualità si paga, e la quota di Pil investita per l’istruzione è troppo bassa. Alla fine prevale la cosiddetta «pedagogia nera»: quella retriva e autoritaria che è convinta che il sistema del bastone e della carota sia il migliore strumento per avvicinare lo studente.

Forse la società investe poco sulla scuola perché ne ha smarrito la funzione. Come si recupera?
Le scienze dell’educazione ci aiutano a rispondere a domande come «a chi insegniamo?», «cosa insegniamo?», «come insegniamo?», «perché insegniamo?». In una democrazia, la società chiede alla scuola di preparare lo studente non alla società di oggi, ma a quella di domani. La scuola dovrebbe preparare soggetti in grado di mettere in discussione lo stato di cose presente. Ne trarrebbe beneficio anche il mondo del lavoro. Tanti studi dimostrano che dove le persone stanno meglio lavorano meglio.

Il dibattito sulla valutazione si è avvitato spesso intorno alle prove dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (Invalsi).
Le prove Invalsi di per sé non sono fatte male, sebbene non valutino competenze forniscono informazioni utili su alcune conoscenze e qualche abilità. Ma soffrono della stessa ambiguità della valutazione: a che cosa serve l’Invalsi? Era nato con l’obiettivo di apportare al sistema politico conoscenze su equità, qualità ed efficacia della scuola e come tale va difeso. Progressivamente però questa funzione è stata marginalizzata. Se un istituto valuta un sistema, deve mantenere una sua autonomia, ma se il ministero ne allontana il presidente (accadde a Vertecchi nel 2001) allora sorge un problema. L’Invalsi ha preso un’altra strada e ora si occupa soprattutto di altro, come di accertare gli apprendimenti di singoli studenti, un compito che invece spetta agli insegnanti.

I test Invalsi dovrebbero valutare le cosiddette «competenze», un concetto spesso attaccato soprattutto da sinistra.
Vero, ma il concetto di competenza in sé non è negativo. La persona competente è consapevole dei propri diritti, interviene sulla realtà modificandola e lo fa agendo con altre persone. Il problema è che se si afferma che una prova a scelta multipla come il test Invalsi misura le competenze, se ne impoverisce il significato.

Oggi chi applica la «valutazione che educa»?
All’estero lo fanno interi sistemi scolastici nazionali: la scuola finlandese, ad esempio, si basa su una valutazione descrittiva ma garantisce agli insegnanti una formazione iniziale e uno stipendio assai diversi dai nostri. In Italia la valutazione educativa è praticata da diversi docenti e in alcuni casi da interi istituti. È nato un Coordinamento per la Valutazione Educativa (Cve), con diversi gruppi locali. Come Università li seguiamo. Le evidenze che funzioni ci sono però è necessario uno sforzo iniziale non indifferente in termini di autoformazione.

Anche il ministro dell’istruzione Valditara coltiva un’idea restauratrice della scuola, a partire dal ritorno del voto numerico nella scuola primaria e delle nuove regole sul voto di condotta.
È convinto che esistano formule magiche come il numero, i premi e le punizioni. È una visione meschina del funzionamento di una comunità educante, che alla fine tende a dare di più a chi ha di più e a togliere a chi ha meno. È una visione antiscientifica dell’educazione: il cambiamento valutativo nella scuola primaria prevedeva formazione docenti e monitoraggio, processi che richiedono risorse, che il ministero ha scelto di non investire.

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Pubblicato da: Redazione

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