Proponiamo qui l’incipit dell’intervento di Davide Borrelli sulla meritocrazia, un lavoro incentrato principalmente sul percorso universitario, i cui effetti sono stati posti all’attenzione pubblica anche da una serie di interventi all’apertura dell’anno universitario sia da Emma Ruzzon, rappresentante degli student* all’UNIPD sia da quello prepandemico tenutosi alla Normale di Pisa. La logica applicata all’Università non si discosta per nulla da quella applicata alla scuola italiana attraverso l’INVALSI, la modificazione ministeriale dei piani di studio, il dosaggio delle materie di studio e formazione nei vari indirizzi, la scansione del percorso scolastico nei rispettivi cicli di studio. Gli effetti sotto forma di ansia, di abbandono scolastico e universitario emergono dai dati ufficiali, da quanto esternano gli student*, da i loro gesti estremi. In Italia e nel resto del mondo.
Su questo diversi lavori sono stati pubblicati, richiamiamo quelli di Rosella Latempa, di Carosotti, di Cingari, di Lucivero, di Davide Viero che abbiamo postato anche su questo sito e che vi invitiamo a leggere o rileggere attraverso le lenti proposte da questo scritto. G.Z.
LE POLITICHE MERITOCRATICHE PER L’ISTRUZIONE IN ITALIA E I LORO EFFETTI
Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023
Nel mio intervento mi propongo di far luce su una dimensione della valutazione che definirei “quasi-religiosa”. Per descrivere le trasformazioni avvenute nell’università nel corso degli ultimi venti anni si adotta in genere l’espressione “quasi mercato”. Basti pensare all’ampia saggistica sul capitalismo accademico che sottolinea quanto l’università e il mondo della formazione nel suo complesso siano stati progressivamente sottoposti a forme di regolazione di mercato. Dal canto mio, oggi vorrei provare a esaminare la valutazione dell’università come se fosse una forma di religione, non per mettere in discussione il paradigma interpretativo del “quasi-mercato”, ma per contribuire ad approfondirne meglio le implicazioni sul piano delle soggettività. Del resto, “quasi-mercato” e “quasi-religione” non sono prospettive separabili. Come si sa, Margaret Thatcher sosteneva che l’economia di mercato fosse solo uno strumento dal momento che il vero obiettivo era, in realtà, cambiare l’anima. Dunque, l’agire di mercato viene visto come una pedagogia morale destinata a intaccare profondamente e a ridefinire l’identità, l’ethos e la sfera dei valori dei ricercatori. La valutazione, come la religione, ha a che fare con l’anima. Per questo, proporrò di leggere l’acronimo ANVUR come “Agenzia Nazionale Valutazione Uffici Religiosi”.
La mia relazione si articola in tre parti. Innanzitutto, se la valutazione dell’università è una quasi-religione, provo ad analizzare alcuni dei suoi miti fondativi, i dogmi su cui si fonda, le liturgie e gli articoli di fede che siamo chiamati a osservare in quanto ricercatori. In secondo luogo, sempre per mantenermi nella metafora teologica, sostengo che la valutazione è un meccanismo infernale, ci condanna tutti (vincenti e perdenti della valutazione) all’inferno, non soltanto perché tende a togliere ai ricercatori l’autonomia di cui essi hanno bisogno per praticare la ricerca, ma per tutta un’altra serie di ragioni che investono proprio la soggettività del ricercatore. E infine, provo a individuare qualche via d’uscita, e lo faccio a partire dall’appello “Disintossichiamoci” promosso tre anni fa su ROARS da Federico Bertoni, Mariachiara Pievatolo, Valeria Pinto e dal sottoscritto. Era una specie di grido di dolore, un moto di ripulsa istintivo per reagire al maltrattamento dell’università e della ricerca perpetrato sistematicamente attraverso il dispositivo della valutazione. Evidentemente, quell’appello doveva toccare corde molto profonde se in pochi giorni ha raccolto l’adesione di un paio di migliaia di colleghi prima di esaurirsi di fronte allo scoppio della pandemia.
In un pamphlet del 2015, prendendo posizione “contro l’ideologia della valutazione”, rievocavo la situazione del problema del traffico nel film Johnny Stecchino. Ricorderete il personaggio interpretato da Roberto Benigni, ospite a Palermo dallo zio tossicodipendente che gli racconta il “grande problema” che a suo dire affliggerebbe la città. Ecco, noi abbiamo vissuto anni in cui il grande problema dell’università era il fatto che mancasse un sistema di valutazione della qualità della ricerca. Al tempo denunciavo questa narrazione come una grande operazione di depistaggio cognitivo organizzata sul conto dell’università italiana. Infatti, se guardiamo ai dati OCSE dei rapporti Education at a Glance relativi alla quota di PIL investita nel comparto istruzione, ci rendiamo immediatamente conto che il grande problema dell’università italiana non è mai stato quello del traffico, cioè della valutazione, semmai è sempre stato quello di un finanziamento limitato e tra i più bassi fra i Paesi OCSE.
Tuttavia, mi rendo conto che la denuncia, pur doverosa, che facevo in quel saggio ora non basta più e deve essere integrata con un altro tipo di interpretazione. L’ideologia è una tecnica di nascondimento, di mistificazione della realtà. Ma qui c’è dell’altro, siamo di fronte propriamente alla costruzione di un nuovo regime di verità. Come ha osservato Michel Foucault, non è possibile dirigere gli uomini senza fare delle operazioni nell’ordine del vero. Quello che si fa quando si costruisce un nuovo regime di verità, in grado anche di plasmare nuove soggettività, è precisamente intervenire “attraverso strumenti effettivi di formazione e di accumulazioni del sapere, […] metodi di osservazione, tecniche di registrazione, procedure di indagini di ricerca, apparati di verifica”. E saremmo ingenui se ci limitassimo a ritenere che si tratta soltanto di misure di tipo gestionale-organizzativo. In realtà, siamo di fronte a una vera e propria nuova filosofia governamentale, una nuova tecnica del sé che serve a dirigere le condotte degli uomini. Attraverso le procedure di valutazione introdotte nell’università si può dire che stiamo sperimentando delle tecnologie governamentali destinate ad essere estese al governo dell’intera popolazione. Noi sociologi spesso cerchiamo il mutamento fuori dall’accademia, nella società intorno a noi, e invece il mutamento più clamoroso si produce a volte a partire dal nostro ambiente, proprio sotto i nostri piedi. E dunque quale migliore modo per osservarlo e studiarlo che non guardare noi stessi in quanto accademici? “Ogni comunità ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze […] Il discorso meritocratico punta a glorificare i vincitori e a stigmatizzare i perdenti per la loro presunta mancanza di merito, virtù e diligenza”. Questa osservazione di Thomas Picketty ci fa comprendere a che cosa mira l’ambizione quasi teologica del discorso della meritocrazia, appunto a legittimare la linea di separazione tra i sommersi e i salvati.
Se la valutazione dell’università è una quasi-religione, allora ovviamente ci deve essere un clero chiamato ad amministrarla, e formule da applicare così come azioni rituali da mettere in opera. Tutti abbiamo familiarità con cose come i cicli della performance, le Schede Uniche Annuali dei Corsi di Studio e con tutti gli altri macchinosi ammennicoli dell’assicurazione della qualità. Con essi facciamo l’inquietante esperienza di come l’azione reale venga appannata da quella scritta, di come l’adempimento burocratico arrivi a fagocitare la vita reale, e di come tutto questo tenda a creare una forza d’inerzia che è il Rapporto (per citare il Balzac de Gli impiegati).