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“scolastisciatto”. La lingua della scuola.

da | 9 Lug 2022 | Materiali

“scolastisciatto”. La lingua della scuola.

di Michele Canalini

Quale lingua si parla a scuola? La stessa tra insegnanti e allievi o tra dirigenti, segreterie e genitori? È un registro che cambia in base alle singole competenze lessicali oppure è lo stesso, monotono e piatto, codice linguistico, adoperato uniformemente da tutti?
Pare una domanda quasi banale ma siamo certi che non lo sia. Perché a scuola, soprattutto negli ultimi decenni, si è imposto un tipo di lingua che è una via di mezzo tra l’antilingua deplorata anni fa da Italo Calvino, quella cioè astratta e ricca di ridondanti perifrasi e da lui nello specifico additata al mondo della politica, e una lingua specialistica, fatta di riferimenti a determinate attività o circoscritte procedure, e per giunta densa di termini univoci del frasario scolastico, che però si rivela semanticamente sterile.
Infatti, questo nuovo codice in uso nelle scuole italiane non è frutto di una fusione riuscita tra i due registri di cui abbiamo parlato, né a sua volta è riuscito a sfruttare al meglio le potenzialità di ciascuno dei due sottoinsiemi che lo animano. Anzi, si presenta come un prodotto mal riuscito, un ircocervo della comunicazione senza capo né coda.

– Ragazzi, oggi dobbiamo essere presenti in orario extracurricolare al debate, rispettando gli obiettivi del Pon che è stato approvato e finanziato. Vale anche per gli studenti con Pdp e Pei che hanno scelto di partecipare. Considerate che sono skills che possono essere utili per tutti voi.
– Scusi, proffe, ma le ore di oggi pomeriggio sono considerate valide anche per il Pcto?
– Certo, è scritto anche nel Ptof, ma non possiamo inserirlo su Argo.
– Possiamo però inserire le ore nella piattaforma dell’Alternanza, vero?
– Questo senz’altro, ragazzi, anzi è necessario per le operazioni di matching.

Al termine di questo verosimile dialogo immaginario, sfido chiunque che sia estraneo al mondo dell’istruzione a capirci qualcosa. Ma il dialogo è verosimile perché può riprodurre gergo e forme di un linguaggio ormai in comune tra tutti, docenti e discenti.
Si tratta, infatti, del ricorso a sigle sempre più numerose (Pon, Pdp, Pei, Pcto, Ptof) utilizzate per accelerare la comunicazione; sono impiegati, poi, vocaboli quasi tutti presi in prestito dall’inglese ed entrati di diritto nel nostro dizionario (debate, skills, matching) che avrebbero i loro equivalenti nella nostra lingua ma che per uno strano motivo vengono sistematicamente ignorati; oppure si tratta di termini di natura informatico-commerciale, ma di comprensione solo per gli adepti (“Argo” è una delle tipologie più diffuse di registro di classe in modalità online).
Ma se questo è il lato specialistico, l’altro lato della lingua parlata a scuola è quello di una lingua astratta, ampollosa, generica e tanto più insignificante e per certi versi irritante perché alla fine appoggiata su parole settoriali, ai più sconosciute. Insomma, come risultato abbiamo un modo di parlare vago ma sorretto da una terminologia peculiare, sfuggente eppure sostanziato di un tessuto verbale rigorosamente tecnico e tecnologico: un mostro metamorfico che, per citare le stesse espressioni di Calvino, ha come esito il “terrore semantico” (“Cosa diavolo significano tutte le sigle elencate sopra?”) e che conduce, a lungo termine, alla “necrosi” della comunicazione (“Non capisco proprio cosa sia stato detto e, alla fine, per una sorta di repulsione, neanche mi interessa”).
Ecco, questo mostro noi lo possiamo chiamare lo “scolasti-sciatto”.
Perché un ulteriore contrassegno di questo anfibio della lingua è la sciatteria della comunicazione.
Ve lo dimostriamo sostituendo, nel dialogo precedentemente riportato, le parole specialistiche con quelle dal senso più comune.

– Ragazzi, oggi dobbiamo essere presenti in orario extracurricolare al dibattito, rispettando gli obiettivi del bando del ministero che è stato approvato e finanziato. Vale anche per gli studenti con un Piano didattico personalizzato e con un Piano educativo individualizzato che hanno scelto di partecipare. Considerate che sono competenze che possono essere utili per tutti voi.
– Scusi, professore, ma le ore di oggi pomeriggio sono considerate valide anche per i Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento?
– Certo, è scritto anche nel Piano triennale dell’offerta formativa, ma non possiamo inserirlo sul registro elettronico.
– Possiamo però inserire le ore nella piattaforma dell’Alternanza, vero?
– Questo senz’altro, ragazzi, anzi è necessario per le operazioni di conteggio e di riscontro.

La sostituzione dei termini ha però originato un mostro ancora più grande: il dialogo tra insegnante e allievi non solo è diventato piatto stilisticamente ma si è terribilmente allungato, all’insegna di una prolissità che non può non lasciare per strada diversi ascoltatori. Ragazzi e no.
Insomma, privato della terminologia specialistica, lo “scolastisciatto” è diventato noioso, insignificante e quasi scadente. Si è trasformato in un parlato che si sottrae ulteriormente al bello stile, che rifugge la gradevolezza dell’ascolto perché supplisce l’enfasi con la verbosità e la contrazione con una lungaggine insostenibile.
Eppure, al netto delle singole varianti, questa ormai è la lingua dominante negli edifici scolastici, una sorte di koinè dei singoli saperi di tutte le discipline che si sono, però, adagiate su un tono medio-basso, al costo di un baratto dialettico che ha scambiato la duttilità per efficacia semantica e che ha rinunciato alla ricchezza di ogni disciplina per soggiacere, più o meno consapevolmente, a una concertazione rapida ma inerte, ormai incurvata verso una ordinarietà della parola quasi irreversibile. La spinta decisiva verso il basso è stata data dal vocabolario dei social che da un pezzo ha fatto il proprio trionfale e barbarico ingresso nelle stanze dell’istruzione nostrana, spingendo la nostra lingua giù nel precipizio dell’insulsa medietà.
In questo modo, lo “scolastisciatto” ha rinnegato le proprie tradizioni e origini, quelle risalenti alla nostra cultura occidentale che ha le sue fondamenta nella sapienza greca e nella retorica latina: cioè, quell’amore per la parola che si trasformava in culto delle stessa perché sapeva che la parola non era solo strumento di comunicazione né era soltanto atto stesso di espressività. La parola, invece, aveva il potere demiurgico di indicare le cose e di farle vivere, attribuendosi dunque una funzione sacrale e genetica che lo stesso cristianesimo avrebbe successivamente rinforzato e fatto germogliare nel messaggio evangelico.
Nondimeno, quasi in un’evoluzione al contrario, oggi la lingua adoperata nelle scuole sembra aver perso tali caratteristiche; per giunta, lo “scolastisciatto”, nella sua mediocrità e nella sua esclusività (nel senso che esclude, per forza di cose e per l’indifferenza dei suoi parlanti, il contributo di qualsiasi altra risorsa – retorica, filosofica o culturale – che sia estranea al proprio compatto e inespugnabile repertorio linguistico) talvolta contempla, tra le sue possibilità, quella del grottesco; o, nei casi più riusciti, quella del ridicolo tout court. Lo fa, e non di rado, quando entra in scena, nelle sue insopprimibili forme e mutevolezze, il pedante di turno.
– Cari allievi, oggi dobbiamo essere presenti in orario extracurricolare alla sfida dialettica del dibattito retorico, nel rispetto rigoroso degli obiettivi del Programma Operativo Nazionale (Pon) del Miur, intitolato “Per la Scuola, competenze e ambienti per l’apprendimento”, cioè uno di quei piani di interventi che è stato approvato e finanziato dal nostro istituto nelle sedi collegiali. Considerate che ciò vale anche per gli studenti con Piano didattico personalizzato e Piano educativo individualizzato i quali hanno scelto di partecipare meritoriamente all’iniziativa. Considerate, inoltre, che sono soft skills che possono essere utili per tutti voi, anche in una prospettiva di lifelong learning.
– Scusa, ma che cazzo ha detto il prof?
– Certo, è scritto anche nel Ptof, che è la nuova dicitura del Programma dell’offerta formativa della nostra scuola ma declinato nell’arco di un triennio.
– Oddio, sto male… quando la finisce?
– Questo senz’altro, ragazzi, anzi è necessario per le operazioni di matching, quando dovremo rispondere anche al gap di competenze che emerge dal raffronto tra domanda e offerta di lavoro.

Prosit (perdonate pure il saccente latinismo di chiusura).
Tuttavia, proprio un cultore contemporaneo del latino (e del greco), cioè Ivano Dionigi, ha dedicato il suo ultimo libro alla liturgia del vocabolo (Benedetta parola, Il Mulino, 2022). “La parola è prima, la comunicazione è seconda”, dice l’ex rettore dell’Università di Bologna, ammonendo invece il “nostro tempo” di aver svuotato di senso l’esperienza della parola, disgiungendola da quella della realtà e della verità.
Dunque, chi più della scuola e delle nuove generazioni, e di coloro che sono chiamati a formarle, può essere identificato con il “nostro tempo”? E con lo “scolastisciatto”?

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

Centro studi per la Scuola Pubblica

Via Monsignor Fortin 44 – Padova

Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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