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Gli studenti delle “professionali”.

da | 22 Feb 2022 | Materiali

Proponiamo qui un ampio stralcio dell’articolo apparso nel sito della rivista “Gli Asini” che ci pare particolarmente ricco di riflessioni comuni.G.Z.

Gli studenti delle “professionali”.

di Fulvia Antonelli da gliasinirivista.org

Migliori condizioni organizzative, almeno sulla carta, degli enti di formazione non hanno garantito a Lorenzo di tornare vivo dallo stage. Questo perché le 400 ore annuali che uno studente svolge di stage sono su quei luoghi di lavoro dove sono morte oltre 3 persone al giorno nel 2021.

Le esperienze di stage possono essere anche esperienze di infortunio, di sfruttamento di manodopera gratuita, di relega dei ragazzi in attività per nulla formative e di bassa manovalanza, durante le quali i ragazzi e le ragazze possono subire molestie, essere oggetto di razzismo, subire trattamenti ingiuriosi.

Ma chi sono i ragazzi che a 14-15-16 anni scelgono i percorsi di formazione professionale triennali?

Più della metà sono ragazzi fuoriusciti dai percorsi di istruzione tradizionali, espulsi dalla scuola attraverso bocciature e insuccessi scolastici; più della metà degli studenti sono maschi mentre le femmine si concentrano nei percorsi professionalizzanti molto connotati dal lavoro femminile come l’operatore alle cure estetiche; al Nord alta è la quota degli studenti figli dell’immigrazione. Sono ragazzi e ragazze che non andranno all’università, forse una parte di loro tornerà a scuola dopo qualche anno per prendere un diploma, ma saranno una minoranza.

Con il lavoro hanno un rapporto diverso da quello che hanno gli studenti dei licei che spesso animano i movimenti studenteschi: non cercano un lavoro in cui realizzarsi e trovare soddisfazione, ma un lavoro da cui ottenere soprattutto sostentamento materiale, dignità, una alternativa alla precarietà del lavoro nero o dequalificato vissuto dai loro genitori o in cui confermarsi nella classe sociale di provenienza: popolare, operaia o artigiana.

Sono studenti spesso nelle scuole considerati difficili soprattutto nei primi anni scolastici: avrebbero bisogno di interventi educativi, di essere motivati, di attenzioni individuali, di orientamento, di ricostruire un senso di fiducia di sé. Sanno bene che sono visti dagli altri come studenti di serie B e non partecipano a manifestazioni o movimenti, sono proiettati in una vita da adulti, non potranno prolungare la loro giovinezza allungando il percorso formativo nell’Università: diventeranno subito a 18 anni lavoratori, precari o disoccupati. Rispetto al lavoro non hanno nessun idealismo, ad attirarli è soprattutto la possibilità di diventare adulti e conquistarsi una certa indipendenza dalle famiglie, di poter avere una casa, una famiglia propria.

I loro luoghi di lavoro non saranno gli studi grafici, gli uffici pubblici e privati, le scuole, le banche, ma saranno luoghi di lavoro più pericolosi come i cantieri, le fabbriche meccaniche, le cucine, i magazzini della logistica.

Chi parla di una scuola che deve formare alla cittadinanza e trasmettere cultura spesso dimentica che gli studenti non sono tutti uguali e che ognuna di queste parole si declina in modo diverso a seconda della classe sociale degli studenti. I discorsi che parlano di una scuola che deve rimanere separata dal lavoro sono molto permeati da una cultura umanistica che riconosce la cultura nella letteratura, nell’arte, nelle scienze ma fatica a riconoscere il contributo che le culture tecniche e professionali di contadini, operai e artigiani hanno dato ad una idea di lavoro che sia operosità, collettività, cooperazione e diritti dei lavoratori-cittadini. E’ in questo disconoscimento che il lavoro a scuola oggi diventa cultura di impresa, perché è un lavoro visto dall’alto di chi organizza e domina i processi economici, non di chi nel tentativo di superare quotidianamente l’alienazione, costruisce il mondo e il vivere sociale non per come esso è ma per come dovrebbe essere dentro e fuori i luoghi di lavoro: una vita a misura dell’essere umano, dell’ambiente, della comunità.

I movimenti studenteschi hanno ragione a opporsi con rabbia all’aziendalizzazione della scuola e le pedagogie attive novecentesche di Freinet, Dewey, Pestalozzi, di Goodman e del Kropotkin di “Campi, fabbriche e officine” possono forse guidarci verso una scuola capace di distinguere il lavoro vivo dal lavoro alienato e sfruttato e a ricomporre senza gerarchie lavoro intellettuale e lavoro manuale nella formazione.

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

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Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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