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EX VIDEO non più EX CATHEDRA

da | 19 Gen 2021 | Materiali

EX VIDEO non più EX CATHEDRA.

di Carlo Salmaso e Beppi Zambon

Molti hanno già scritto attorno ai cambiamenti epocali che questa pandemia – anzi sindemia, come hanno ben sottolineato tutti quegli scienziati più attenti al rapporto uomo/natura, produzione/riproduzione – ha accelerato in maniera pressoché irrefrenabile [1].

Cambiamenti per i quali, in periodi ‘normali’, ci sarebbero voluti anni, sono stati inverati nel giro di pochi mesi, senza alcuna resistenza, senza un’ora di sciopero, senza mediazioni tra le parti sociali, senza l’intervento di nessun sindacato. Potenza dell’emergenza pandemica e del suo uso istituzionale, favorito da rapporti di forza inevitabilmente evanescenti, quasi azzerati.

Nelle aziende e nel pubblico impiego il lavoro cognitivo, sia impiegatizio che dirigenziale, il telelavoro o smart working che dir si voglia, ha avuto una impennata fino all’80% per poi andarsi a stabilizzare attorno al 50%, così come emerge dai rapporti sullo stato del paese – dati, risultanze e conferme sia di provenienza istituzionale che confindustriale [2]. Con soddisfazione (secondo le rilevazioni) reciproca di lavorator* – in larga parte lavoratrici – imprese ed enti pubblici.

La necessità/possibilità di dover/poter lavorare da casa, con l’illusione di gestire in proprio il tempo lavoro, ricavandone frazioni per il nuovo carico, indotto dalla pandemia, di quello di cura e di riproduzione, è stata una felice scoperta. Una soluzione, improvvisata, pasticciata ma concretamente praticata, per tappare la falla aperta dalla sindemia nella produzione e riproduzione sociale. Un’esperienza lavorativa e sociale che lascerà il segno nei tempi a venire.

La stessa fabbrica sociale della trasmissione dei saperi – scuola ed università – è stata inondata e travolta dall’applicazione, nello specifico, del telelavoro.
Non tanto per quanto riguarda il personale amministrativo, che, nei fatti, si è trovato nelle medesime condizioni degli altri lavoratori cognitivi impiegatizi, forse con qualche attitudine precedentemente acquisita, perché già una buona parte del loro lavoro era stata informatizzata e centralizzata.
Molto più destabilizzato risulta – chi inebriato e chi disorientato – il personale insegnante, sia in riferimento al proprio ruolo, sia alla propria funzione, sia nei tempi e nei metodi dello svolgimento dell’insegnamento stesso [3].
Tralasciamo qui gli effetti e le ricadute della didattica a distanza sugli aspetti pedagogici, sull’apprendimento, sulle differenziazioni di classe, sul ‘malessere/mal stare’ indotto tra studenti e docenti e le molteplici implicazioni sociali che sono tracimate dallo specifico ambito scolastico per invadere l’intera società civile, che, tardivamente, tutti ora riconoscono.
Aspetti che evidenziano, così come è avvenuto sul piano sanitario, quale degrado è stato inoculato forzatamente nella scuola pubblica, dalla governance neoliberista degli ultimi vent’anni dell’istruzione e della formazione, strutturate in scuola-azienda, virata alla privatizzazione e al privato vero e proprio.

Vorremmo qui richiamare l’attenzione e indurre ad una riflessione collettiva sulla mutazione del ‘fare e stare a scuola’ del personale tutto, in particolare quello docente.
Sono dieci mesi che la vita scolastica, così come l’abbiamo conosciuta e praticata, viene sbrindellata, per l’emergenza sindemica, per i tentativi inconsulti di metterci una pezza in attesa di tornare come prima, più di prima.
Intanto l’organizzazione delle attività scolastiche è stata abbozzata, fatta, rifatta, proposta, rivista, con una insipiente leggerezza istituzionale alleviata dalla disponibilità dei dirigenti scolastici e dalla generosa flessibilità del personale tutto.
Ora siamo al 50% – 75% in presenza [a singhiozzo], il resto a distanza, creando in più una divisione, una spaccatura netta nel corpo insegnante: infanzia, primaria e secondaria di primo grado in classe e in situazione di costante rischio per la salute; secondo grado, formazione (e università) a distanza. Questa condizione, con differenze in alcuni casi importanti, è stata convissuta in gran parte dell’emisfero Nord Occidentale: è però curioso notare come le scuole e le università private, (in particolare nel mondo anglosassone) apripista nell’uso della didattica a distanza, abbiano preferito ridurne l’uso al minimo, mentre quelle pubbliche siano state chiuse e quindi, in quest’ultime, teledidattica e telelavoro l’abbiano fatto da padrone [4].
Tutt*, comunque, abbiamo sperimentato e praticato per 3 mesi lo scorso anno scolastico e all’occorrenza quest’anno la didattica a distanza, dovendo sopperire con mezzi e strumenti propri (costi economici e sociali a carico) alle necessità imposte dal nuovo corso dell’insegnamento e del lavoro scolastico ad esso connesso.
Tutt* siamo stati costretti ad un intenso addestramento quotidiano – altro che 20 ore di corsi di aggiornamento, altro che 18 ore di insegnamento settimanale – per assimilare, adattarsi, tradurre in pratica, trasferire, interessare grandi e piccini al nuovo ‘fare e stare a scuola’, pur lavorando da casa.
Tutt* ci siamo dovuti vendere al capitalismo delle piattaforme informatiche, anche quelli che le praticano con un approccio critico, visto che né il Ministero dell’Istruzione né le varie Agenzie di cui si avvale, hanno predisposto una struttura di rete informatica su cui potersi appoggiare per ‘sperimentare, realizzare, condurre’ buone pratiche pubbliche di teledidattica.
Anzi, da parte ministeriale è venuta l’indicazione di usare – e pagare – le majors del settore, che, così, in pochissimo tempo sono diventate come le lampadine per l’energia elettrica.

Tutt* questi strumenti e prodotti messi a disposizione per la teledidattica che riguardano il mondo della scuola (e dell’università), ossia milioni di studenti, lavoratori e famiglie, non sono, in grandissima parte, innovativi, cooperativi, empatici nel proporre e disporre le argomentazioni delle varie discipline di studio.
Piuttosto tendono a riprodurre e a restaurare con forme e strumenti tecnologici nuovi una concezione antica, trasmissiva, autoritaria, nozionistica – ex video e non più ex cathedra – del trasferimento del sapere alle nuove generazioni, dove lo studio critico diventa sempre di più di nicchia, quasi elitario.
A monte ci sta, e si consolida come modalità pedagogica strutturale generale, il modello INVALSI, la misurazione standardizzata delle conoscenze, il modello di una scuola – fabbrica (meglio di azienda in questo contesto) che sforna, quasi come se fosse una fantascientifica macchina sociale, nuovi cittadini conformati, nei quali il capitale umano è garantito dal portfolio delle competenze attestate.
La tele didattica non è di sicuro una novità legata a questa pandemia (pensiamo a quanto abbiamo discusso sull’uso di internet, di wikipedia, delle chat, delle Lim), ma questa emergenza ha imposto a tutt* un adeguamento forzato e forzoso, a cui è stato impossibile sottrarsi, pena l’essere considerato un insegnante inadeguato, fragile, fuori tempo massimo, un docente ‘dropout’.
E molti di noi sono andati e sono in crisi, professionale ed esistenziale.
Il malessere è molto, molto diffuso, tra gli insegnanti, ben oltre quelli che sono stati identificati e indicati come ‘lavoratori fragili’ per età o stato di salute.
Un mal stare che contiene un ventaglio di sintomi, che mostra il viale del tramonto dell’insegnante, inteso come intellettuale, come instillatore di dubbi e verità, come maestro di vita; e che fa trasparire la trasformazione dell’insegnante in lavoratore cognitivo standardizzato, obbligato dalla macchina della teledidattica alla disciplina dei suoi tempi e dei suoi metodi [5].
Tutt* ridotti ad essere smart-workers oltre che working-poors, considerato il livello stipendiale riconosciutoci, fermo, anzi ridottosi nel tempo a quello della fine del ‘900: lo stesso contratto integrativo sulla didattica a distanza, siglato dai sindacati confederali, aldilà della sua insensatezza e inconsistenza, altro non è che la registrazione a posteriori di quanto già si è inverato.

[1] Sindemia http://www.nbst.it/822-pandemia-covid-19-%C3%A8-anche-sindemia-disuguaglianze.html

[2] Rapporto censis https://www.censis.it/rapporto-annuale/54%C2%B0-rapporto-sulla-situazione-sociale-del-paese2020

[3]Universita https://www.roars.it/online/perche-luniversita-delle-piattaforme-e-la-fine-delluniversita/

[4] Covid nelle scuole https://www.tecnicadellascuola.it/covid-scuole-nel-mondo-e-chiusure-autunnali-ricerca-della-rivista-science

[5] Malessere a scuola https://www.tecnicadellascuola.it/sono-visibili-i-sintomi-del-malessere-della-scuola

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

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Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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