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Il digitale a scuola: alcune fake news che è utile conoscere

da | 22 Dic 2020 | Materiali

Proponiamo qui uno stalcio da un ampio e ricco articolo dal titolo “La scuola e il discorso digitale” rcentemente pubblicato sul sito doppiozero.

Il digitale a scuola: alcune fake news che è utile conoscere

di Girolamo De Michele da doppiozero.com

L’ordine del discorso digitale si avvale di una serie di luoghi comuni – nel doppio senso di affermazioni che vengono date per scontate in quanto condivise, senza che ne sia verificata la veridicità; e di territori nei quali bisogna esserci. Si aggiunga che in quei territori si incontrano non solo la gente che conta, ma anche i flussi di finanziamenti senza i quali la scuola dell’autonomia boccheggia. Ne elenco una sintesi dall’elenco fatto da Marco Gui nel quinto capitolo del suo Il digitale a scuola:

A. Si è invertita l’asimmetria educativa: gli studenti sanno più dei professori nel campo digitale

B. I nativi digitali hanno uno stile di apprendimento diverso, e migliore

C. I media sono neutri, tutto dipende da come li usiamo

D. La lezione frontale è un lascito del passato

E. La conoscenza è in rete, non serve più imparare nozioni


A queste cinque asserzioni si può rispondere agevolmente che:

A1. Questa affermazione è frutto di un errore percettivo: si scambia lo smanettare con una effettiva competenza digitale, e l’essere sui social con l’essere sul web. In realtà la maggior parte degli utenti dei social non esce mai dai limiti della propria infonicchia: i contenuti che condivide, le operazioni che compie (leggere un messaggio, aprire un video, ecc.) restano all’interno di questo spazio. La sensata esperienza didattica dimostra che questi apparenti smanettoni sono a volte in difficoltà nel compiere azioni elementari, come entrare nella propria casella di posta o aprire un drive, se non partono dal proprio social. Così come sanno quali tasti pigiare, ma non sanno cosa questo comporta: per citare un’esperienza personale, quando arrivo a scrivere alla lavagna col gesso in mano , per far vedere dove si arriva una volta avviata con Frege la scissione fra significato e significante, capita di rado che qualcuno sappia cosa significa questa stringa di codice html, o la sappia correlare all’immagine del pulsante con su scritto “link” o il disegno della graffetta (nondimeno, un ispettore che capitasse in quel momento potrebbe criticare il mio uso pervicace del gesso in luogo della più aggiornata LIM). In aggiunta, «molte ricerche hanno mostrato che l’abilità tecnologica e digitale dei giovani resta per lo più confinata nell’ambito delle competenze operazionale», laddove «la competenza digitale “content related”, relativa cioè all’analisi dei contenuti veicolati dai media, è maggiore negli adulti che nei giovani» (p. 173): si sta parlando, per capirci, (anche) della capacità di interpretare criticamente un post, individuandone le distorsioni.

B1. Questa asserzione si basa su un doppio errore. In primo luogo, il presupposto che gli stili di apprendimento denotino due campi – per banalizzare: i docenti-boomers e i giovani-zoomers – separati da paratie stagne. L’esperienza della DaD ha invece dimostrato che i boomers sono stati in grado di convertirsi in zoomers o meeters. Questo ci porta al secondo pregiudizio: che lo stile di apprendimento caratterizzato da velocità, frammentazione, iperstimolazione e dal multitasking sia di per sé “migliore”: vero è, invece, che questo stile comporta la rinuncia a importanti elementi cognitivi – approfondimento, analisi riflessiva, capacità di imparare dai propri errori, lentezza (tutti elementi che non vengono misurati dai test di verifica degli apprendimenti, per inciso). In definitiva, questo luogo comune si basa sull’assolutizzazione di uno stile cognitivo, che è però funzionale solo a poche e determinate esperienze di apprendimento.

C1. Qui si tratta di capire cosa si intende per “media”: il mero accrocco, o gli ambienti mediali? Sappiamo bene che algoritmi e feedback sono progettati e programmati per veicolare certi comportamenti o pratiche, e limitarne altri. E che il loro inserimento all’interno di un contesto ne veicola la funzione: insomma, l’algoritmo sarà anche in apparenza neutro in quanto insieme di simboli/codici, ma dietro l’algoritmo c’è un programmatore umano. Anni fa, quando l’algoritmo che attribuiva le cattedre ai precari comportò una vera e propria deportazione di precari, il suo programmatore (che era stato precario anch’egli) rispose alle critiche dicendo: se la cattedra che ti spetta è a Terni, la colpa non è dell’algoritmo. Vero: la colpa era del taglio delle 100.000 cattedre operato dalla riforma Gelmini, sul quale la Buona Scuola glissava. Ma l’idea che esistesse un algoritmo imparziale impediva di vedere la foresta al di là dell’albero, e finiva col fornire una giustificazione smart all’ingiustizia.

D1. Qui si tratta in primo luogo di intendersi su cos’è una lezione frontale. Il docente in classe ha una certa varietà di modalità, che vanno dal leggere la stessa storia sullo stesso libro con le stesse parole di vendittiana memoria, fino al brainstorming, con tutte le varianti del caso: però è probabile che lo studente percepisca come frontale una lezione che il docente non considera tale. In altri termini, si tratterebbe di vedere se i presunti limiti della lezione frontale non siano in realtà limiti intrinseci a un uso parziale o limitato, come guidare un’auto senza mai ingranare le marce alte. Questo luogo comune si accompagna però a un implicito: che, essendo “vecchia” la lezione frontale, qualsiasi cosa, purché “nuova”, sia di per sé migliore (per inciso: formulata così, è una fallacia logica); e dunque flipped classroom, collaborative learning, didattica per competenze: senza che di queste “novità” si dimostri la maggiore utilità.

E1. Questo luogo comune, che è stato alla base della Buona Scuola (lo stesso Matteo Renzi l’aveva in precedenza enunciato a Che tempo che fa con aria ispirata), è una modalità smart di enunciare la didattica per competenze, che si basa su un doppio fraintendimento: in primo luogo, si confondono le conoscenze con ciò che merita di essere conosciuto; in secondo, sovrappone il ruolo delle competenze con quello delle conoscenze. In rete, ma prima che la rete fosse nel mondo, c’è di tutto: il vero, il falso, l’utile e l’inutile. Non si possono mettere tutti i dati sullo stesso piano limitandosi a connetterli, senza operare una scrematura e una selezione: si formano altrimenti studenti (di nuovo, parlo per esperienza) abituati a scaricare la qualunque, e la qualunque a giustificare con affermazioni tipo “l’ho trovato in rete”. Al tempo stesso, «le competenze di verifica delle informazioni non possono sostituire il confronto con una base di informazioni di cui si conoscono senza dubbio la validità e la coerenza» (p. 185): la grandinata di fake news, di negazionismi, di fallacie logiche e argomentative, di errori di traduzione, di equiparazione delle fonti che ha inquinato la discussione pubblica nei giorni del lockdown e oltre dovrebbe avercelo ultimativamente insegnato. Al fondo di questo luogo comune, in modo più evidente che negli altri, c’è la domanda su quale finalità vogliamo attribuire alla scuola. Di nuovo con le parole di Gui: «se vogliamo formare tecnici da mettere subito nel mercato del lavoro, l’idea di un utente che trova le informazioni a mano a mano che gli servono, può essere efficiente. Se, però, abbiamo in mente un cittadino autonomo, che sappia dare una lettura critica dei fatti che vive direttamente o che trova nei media, il ruolo della conoscenza pregressa e ben strutturata appare irrinunciabile» (p. 186).

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

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Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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