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La scuola secondo la Fondazione Agnelli.

da | 10 Ott 2020 | Materiali

La scuola secondo la Fondazione Agnelli.

di Davide Viero da roars.it

Questo scritto intende essere un contributo all’interpretazione della mole di attivismo sui maggiori quotidiani nazionali da parte della Fondazione Agnelli in questo momento storico. Uno sforzo necessario per comprendere le premesse e gli scenari di arrivo di cotanti interventi che mirano a preformare l’opinione pubblica non attraverso l’elevazione culturale e il confronto dialettico di pensieri, bensì con dosi massicce di ideologia, dispensate sotto ricette bell’e pronte da prendere così come sono e con ingredienti economici di ben ristretta visione.

L’interventismo della Fondazione Agnelli trova le sue ragioni nell’allentamento della struttura della società in generale e della scuola in particolare dovuti alla pandemia da COVID 19. Sfruttando tali condizioni, la Fondazione tenta di accelerare una trasformazione alla quale sta lavorando da anni. E certo non è l’unico attore su questa scena, ma ne risulta il battaglione di sfondamento, sorretto alle spalle da numerose divisioni di retroguardia e complemento; in una guerra più o meno guerreggiata da decenni e che ha intaccato ormai ogni lembo della società.

La premessa di questo scritto è quella di escludere in partenza la neutralità quando si affronta la questione educativa in generale e della scuola in particolare, in quanto essa è funzionale a formare gli uomini secondo un modello antropologico rispondente ai canoni sociali dominanti.

In questo scritto l’interventismo della Fondazione Agnelli sarà interpretato attraverso una doppia filigrana, ovvero le dimensioni sociale e gnoseologica, che sfumano entrambe l’una nell’altra.

In merito alla prima filigrana, le coordinate sociali degli interventi della Fondazione Agnelli (FA da qui in avanti), sono il frutto dell’humus bicentenario del liberalismo. Una concezione che nasconde l’indifferenza e l’irresponsabilità verso l’uomo singolo, dato che tutta l’attenzione è posta sul contesto. Una volta predisposto questo, infatti, tutto si regolerà da sé, ogni cosa per il meglio. Lo sforzo sarà allora quello di predisporre e delimitare, attraverso il diritto, le condizioni contestuali entro cui si muoverà poi il singolo uomo e dalle quali trarrà beneficio. Ecco spiegate la rilevanza spudorata (e la speculare indifferenza verso il singolo) da parte della FA verso il capitale umano, il PIL e tutta una serie di indicatori numerici[1] che rilevano la funzionalità del contesto. Perché solo se questo funziona, è possibile che gli uomini traggano il loro bene da esso, senza apparenti conflitti. Tanto è vero che uno Stato con buoni indici di crescita si finanzierà con tassi minori sulle maggiori piazze finanziarie mondiali e attrarrà un maggior afflusso di capitali esteri; di risulta e solo secondariamente ciò sarà un bene per gli individui di quello stato, a cui toccherà una ridotta porzione dei vantaggi iniziali. Ma una volta definito il quadro del contesto, cosa succede all’interno di esso? Si lascia tutto alla libera iniziativa facendo vigere la più spietata competizione (un esempio lessicale è l’espressione “mercato del lavoro”), intesa come la chiave di volta che sorregge tutto il sistema, in una sorta di trasposizione sociale della selezione naturale. Questa competizione assicurerà la sostenibilità del sistema stesso, dato che tutto mirerà ad un’estrazione di valore massimale, accrescendo la ricchezza generale, al di là di ogni criterio distributivo. Ma è evidente come la ricchezza sia il frutto che comporta la guerra sotto forma di concorrenza. E, come in una gara, uno solo vince e gli innumerevoli altri perdono. Così su ognuno di questi ultimi cadrà la colpa (Schuld) di tale perdita e da qui il loro sentirsi in debito (Schuld) verso il modello che gli dà la l’illusione di vincere e del quale introietteranno sempre più i canoni in modo mimetico. Così, dopo un ristoro a base di soft skills il fante, rimotivato a dovere, si ributterà a capofitto nell’agone, aggressivo come il più valido spartiate, convinto della vittoria[2]. Questo modello ricalca l’alveare della Favola delle api di Mandeville (classico esempio del modello liberale), dove i vantaggi sono dell’alveare mentre le sconfitte appartengono al singolo. Un modello che difficilmente entrerà in crisi fintantoché lo sguardo sarà volto al particolare e all’interno dei confini che di volta in volta il decisore di turno determina.

La competizione mancherebbe però di una condizione preliminare se non fosse associata all’oggettivazione; e questa è la filigrana gnoseologica. Essa è la tendenza a demarcare, a confinare, a rendere quantificabile e numerabile ogni cosa in modo netto (con numeri, indicatori etc.), che così viene trasformata in oggetto. Esso è qualcosa di statico, di già compiuto e totalmente espresso. Un dato di fatto che produce solo relazioni di causa-effetto derivanti da un oggetto che non merita più attenzione in sé. Ciò ha come effetto l’autoreferenzialità da cui tutto consegue a partire da questo punto astratto, estrapolato dal contesto e posto a fondamento. In assenza di dialettica la relazione con l’altro da sé viene traslata nella competizione, ovvero una relazione di dominio entro criteri e contesti predeterminati. Solo con questa chiave di oggettivazione ed autoreferenzialità (esempio lessicale è l’uso del verbo erogare nel definire il compito della scuola) si può capire la FA nella sua stereotipia nel dare i numeri e nel voler valutare qualsiasi cosa. Infatti, a seguito dell’oggettivazione, sale alla ribalta la centralità del risultato, come obiettivo demarcato da perseguire. La valutazione è funzionale proprio alla politica del risultato, in quanto ne è lo strumento che ne certifica l’esistenza o meno.

Sempre attraverso l’oggettivazione è possibile cogliere la portata delle affermazioni di Andrea Gavosto su Repubblica del 12 agosto 2020, il quale afferma:

“La perdita che gli studenti hanno subito da marzo è stata, in termini di apprendimenti, già troppo grave e – si teme – in parte irrecuperabile. Un’altra chiusura totale sarebbe una catastrofe generazionale […] e insieme non smettere di lavorare per mitigare la perdita di apprendimenti”.

Queste parole non possono essere il frutto di uno studioso che ha di mira una formazione scolastica intesa come assimilazione e rielaborazione culturale, dato che questa ha come fine l’infinito, e si svolge su tempi lunghi, dove anche il silenzio ha una valenza nella rielaborazione di contenuti profondi. All’opposto, nella prospettiva oggettivata del Gavosto, il sapere è inteso come valido in sé, un fare e una fretta produttivi sottoposti a deperimento se non continuamente aggiornati, perché tarati al punto e all’attimo dell’istante presente; un istante anch’esso oggettivato e irrelato, senza collegamenti con la soggettività. Possiamo affermare senza tema che il modello è quello dell’operaio che deve stare aggiornato sul nuovo libretto di istruzione per far funzionare la macchina, altrimenti arriva un competitore altro che gli sottrae il posto oppure succede la peggior iattura possibile per il padrone: il blocco della produzione.

A questo punto diventa rilevante ricostruire il tipo antropologico che sottostà a tale concetto di formazione. Ovvero un individuo (studente ma anche insegnante) vuoto che deve essere continuamente riempito come un otre bucato, perché mancante di quella soggettività creatrice a partire da esperienze vissute. Questa continua azione formatrice serve a tenerlo a galla; un risultato, questo, che è frutto anche del continuo dinamismo che però non è altro che un nuotare con la corrente, senza la possibilità di essere soggetti autodeterminati e capaci di creazione, bensì soltanto di riproduzione secondo canoni dati dall’esterno (ecco il life long learning, ovvero capacità di adattamento per tutta la vita).

Una formazione di questa foggia è per forza di cose liquida, perché deve essere cangiante al mutare del contesto[3], con un “sapere” usa e getta e da aggiornare continuamente. Le nozioni devono essere bandite, in quanto producono perdita di efficienza se dissonanti con gli ordini impartiti perché costringono al pensiero e, nella peggiore delle ipotesi, ad una possibile mano alzata che contesta con elementi materiali le parole del guru di turno. L’individuo che sottostà alla concezione della FA è l’antro vuoto della caverna platonica su cui vengono proiettate le immagini che intrattengono senza dare libertà. Una libertà solo apparente nel farsi imprenditori di sé stessi, quando questo non è altro che il pronto adeguamento antropologico alle condizioni contestuali.

Come risuonano in questa concezione le parole d’ordine della didattica moderna, gracchiate dalla stessa FA? Ovvero quelle del restituire il protagonismo agli studenti, la neutralizzazione dell’autorità del docente, la fine dello studente passivo, il sapere critico etc.? Il notorio “studente passivo” è sostituito dalla pseudoattività (Adorno) consistente nell’applicarsi su compiti dati da altri, senza una relazione profonda con la soggettività e lo stesso studente passivo è sostituito dallo studente perennemente vuoto; l’autorità di un uomo, contro il quale è possibile protestare ed opporsi viene ora assorbita dalle procedure, contro le quali è alquanto stupido rivoltarsi; il sapere critico è confuso col sapere acriticamente al passo coi tempi, la cui unica criticità è quella verso il passato solo in quanto passato; lo studente non autonomo o bamboccione è sostituito dallo studente dipendente dalla scuola o dall’erogatore di formazione[4], in una dipendenza che ha dello stupefacente.

Questa è l’attuale scuola che gli odierni didatti epocali (economisti operatori di ideologia) e gli innumerevoli epigoni (operatori inconsapevoli senza ideologia) stanno realizzando.

Il nostro grazie alla Fondazione Agnelli, per avercelo illustrato con limpida chiarezza euristica.

Noi ci chiediamo: tutto questo è quello che è giusto?

NOTE:

[1]Non entro qui nel merito della parzialità di ogni criterio e della conseguente non neutralità.

[2] Evidente constatare come l’alcool o le amfetamine dei primi conflitti mondiali, usati come oggi si usano le soft skills, avessero un effetto passeggero, al contrario di queste ultime, conformanti l’individualità in modo permanente.

[3]Sempre Gavosto, in un altro articolo pubblicato sui Repubblica il 25/08/2020, afferma che “i datori di lavoro devono accettare che padri e madri abbiano orari adattati alle esigenze dei più piccoli. Sarebbe l’inizio di una vera rivoluzione sociale”. In prima battuta parole condivisibili, se non che la scuola, per far fronte alle emergenze strutturali, dovrebbe avere orari flessibili. Ecco la mobilitazione universale richiesta dalla competizione: scuola a tutte le ore (con buona pace dell’equilibrio psico-fisico), lavoro a tutte le ore, orari frantumati all’interno dei nuclei famigliari. E soprattutto senza rendersi conto che il lavoro è anche servizio agli altri. Cosa me ne faccio dell’Anagrafe aperta alle 24? Devo adeguarmi agli orari impossibili di chi ha figli che vanno a scuola a orari impossibili? Forse una bussola o un calendario più che un orologio sarebbero utili. Per Benjamin, infatti, l’orologio segna il tempo vuoto e sempre uguale, mentre il calendario segna gli eventi umanamente rilevanti.

[4]Significativo il concetto di formazione che guida le politiche attive del lavoro annunciate in Italia (ANPAL) e già realizzate in Germania e Francia, esempi inarrivabili di quell’ordoliberalismo di cui ho scritto precedentemente.

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

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Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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