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SCUOLA ovvero SCARICA BARILE

da | 26 Giu 2020 | Materiali

In più di 60 città grandi e piccole ieri si è manifestato per protestare contro i ritardi governativi e ministeriali con cui non si è affrontato il come ritornare a scuola in sicurezza e per esigere un forte investimento per l’istruzione in grado di tamponare i guai fatti e dare una prospettiva a milioni di cittadini piccini e grandi.
Sono state manifestazioni plurali, ricche di contenuti e di partecipazione attiva, con una voglia di protagonismo che non si vedeva da lunga pezza.
Una dichiarazione di intenti per il mondo della scuola che si apre sul nuovo anno scolastico con protagonismo e concretezza: un messaggio forte e chiaro al governo e al MIUR.
In tarda serata Conte manda a dire che ci sarebbe a disposizione un miliardo per nuove risorse alla scuola. Stiamo a vedere se Conte è un Pinocchio o se qualcosa si è mosso. Certo è che le linee guida emanate vanno sempre nella direzione della privatizzazione e aziendalizzazione della scuola pubblica, che si sono trovati 13 miliardi per gli F35, 6 miliardi per Alitalia e FCA … per l’istruzione solo e sempre briciole.[G.Z]

SCUOLA ovvero SCARICA BARILE

Di Shendi Veli da il manifesto.it

Avevamo capito la situazione: nessun intervento concreto del governo e scarico dei rischi sui singoli istituti – afferma Maddalena Fragnito del movimento «Priorità alla Scuola» a Milano – Si capiva dal silenzio che durante il lockdown ha avvolto il destino della scuola e dei minori. Soggetti che non votano e non producono, e per questo sacrificabili. Vogliamo il contrario: partire dalla scuola, come priorità etica, e come nucleo fondante della società».

«La scuola tocca il nodo della riproduzione, le donne se ne sono accorte: dovevano fare smart working, didattica a distanza con i figli e avere cura della casa. A settembre se non si garantisce una didattica piena molte dovranno lasciare il lavoro. Oltretutto l’81% dei docenti sono donne. Da un punto di vista femminista è stato subito chiaro il disastro in corso».

«Chiediamo, ma il Miur lo ignora, di investire fondi nell’educazione. Per ora sono stata stanziati solo 1,4 miliardi, nulla rispetto alle esigenze del comparto. La Cgil sta facendo pressione affinché il governo dirotti sulla scuola 5 miliardi di fondi straordinari non classificati. Questo è solo un primo passo per capovolgere i termini del ricatto, che vedono contrapporre diritto alla salute e diritto all’istruzione. La scuola andrebbe finanziata e ripensata come presidio sanitario territoriale di base, essendo una delle istituzioni più capillari. Ridare fondi e nuova vita alle vecchie infermierie scolastiche, monitorare la salute di alunni e famiglie, fare test gratuiti, costruire un nesso permanente tra educazione e sanità.».

«Questo movimento non nasce in risposta a una legge o una riforma, ma proprio dal vuoto che le riforme degli ultimi vent’anni hanno creato. La scuola e la sanità sono due pilastri del Welfare, entrambi massacrati da tagli e esternalizzazioni. Tutte le componenti, insegnanti, genitori, studenti, stanno capendo cosa gli viene tolto. Si inizia a ragionare fuori dalla propria categoria, e a pensare la scuola come strumento sociale per costruire un presente migliore».

Il codice di Mario Draghi che serviva alla nostra scuola

di Carlo Verdelli dal corriere.it

Una strada c’era, una soltanto: applicare alla scuola italiana, disastrata al quadrato o al cubo dopo l’interminabile paralisi da Covid, il codice Draghi, quel «whatever it takes», tutto quello che è necessario (oppure: costi quel che costi), appena entrato a buon diritto tra le voci definitive del dizionario Treccani. Con quelle tre parole in inglese, pronunciate con asciutta fermezza il 26 luglio 2012 in una Londra ostile, l’allora presidente della Banca centrale europea salvò l’euro dalla tempesta perfetta che stava per abbattersi sui Paesi più deboli, Italia compresa. La risposta alla tempesta perfetta che a settembre rischia di completare l’opera di demolizione della nostra istruzione pubblica sta all’approccio di Draghi come il nadir allo zenit.

Il piano proposto dal ministro competente è uno scarico di responsabilità sulle singole Regioni, i singoli presidi, i singoli insegnanti: da settembre si ricomincia, arrangiatevi. Sì, ma i banchi singoli? E gli spazi per il distanziamento, con il 40 per cento degli edifici non a norma? E il personale docente che mancava già prima e che andrebbe rafforzato di almeno altre 100 mila unità per affrontare le lezioni in più turni? E gli assistenti, i bidelli, il corredo supplementare di fatiche per sanificare aule e ambiti comuni? E la didattica a distanza, che pare certo proseguirà: dov’è il capitolo con le misure pratiche per superare le difficoltà di connessione e dotare tutti degli strumenti indispensabili per non restare tagliati fuori? Risposte non ci sono, o forse chi lo sa, magari il vento ce le porterà. Ma dovrà correre, quel vento, perché il niente che è stato messo sul banco ci è arrivato pure fuori tempo massimo. Davanti, appena due mesi, luglio e agosto, tradizionalmente poco adatti per organizzare imprese impossibili. Con un ulteriore, doppio aggravio: risorse risibili e un sistema che già prima del virus era in stato di imperdonabile abbandono.
Il problema non è tanto il ministro competente, che ha comunque ottenuto che il pensatoio di Colao non si occupasse di istruzione perché c’era già una brillantissima task force al lavoro sul tema (e si è visto con quali lodevoli risultati). Il problema vero è che declassare l’educazione a emergenza secondaria, anzi a ultima delle emergenze, è la spia di un governo dal pensiero corto, molto più preoccupato della tattica dell’annuncio a effetto piuttosto che del destino complicato da immaginare per questo Paese. Sul nodo centrale della scuola, l’elenco delle irresponsabilità va dal presidente del Consiglio, passando per i titolari dei dicasteri di maggior peso, per completarsi con i segretari (veri o presunti) delle forze (grandi o minime) che costituiscono questa maggioranza. Una prova corale di negligenza collettiva, oltretutto ingiustificabile, almeno stavolta, con l’alibi di non dare vantaggi all’opposizione variamente salviniana.
Ogni mossa dei vari leader, osservata in trasparenza, dal taglio dell’Iva o dell’Irpef o dell’Irap a seconda dei giorni, alle baruffe su chi candidare e dove, rivela un obiettivo a breve: il meglio per il proprio partito, o la propria corrente, al prossimo giro elettorale di metà settembre. Come se l’immane ricostruzione a cui è attesa l’Italia, con un Pil in caduta libera del 13 per cento, fosse procrastinabile di un altro po’, dopo aver rimisurato pesi e valori alla luce di un voto che sarà comunque viziato dalle angosce di una nazione, o almeno la parte chiamata ad esprimersi, che sta già toccando con mano le durezze sociali della ripartenza e che anche per questo non si sa quanto impermeabile alle lusinghe di chi le prometterà una luna che non c’è.
Ricominciamo dal diritto allo studio, costi quel che costi, whatever it takes. Doveva e poteva essere il primo messaggio di autentica rinascita. Partendo proprio dalla base, da chi è destinato per legge di natura a ereditare quel che sarà di questo Paese, cioè i bambini, i ragazzi, le famiglie, le donne di quelle famiglie che stanno supplendo un vuoto dello Stato e che, visto il vento che tira, dovranno continuare a farlo anche in autunno. Su 10 genitori che hanno già perso il lavoro, sette sono madri. E la bilancia non tenderà ad equilibrarsi, anche perché il reddito femminile incide meno sul bilancio casalingo, essendo più basso, e quindi è giocoforza il più sacrificabile.
Montano, prevedibilissime, proteste diffuse e minacce di bloccare l’inizio delle lezioni, malumori su cui la destra sta lestamente mettendo il cappello. Alla fine, si arrangerà qualche tavolo, si troverà un extra budget per tamponare le crepe più indecenti, e alla fine faremo finta che, d’accordo, non si è messo in campo «tutto quello che è necessario» ma un passettino in avanti lo si è ottenuto. E ci allineeremo ai nastri di partenza del sistema istruzione del dopo virus nella stessa posizione che occupavamo, tra i cosiddetti Paesi sviluppati, anche prima del virus: ultimi in classifica praticamente in tutte le categorie.
Una crisi di governo, con l’Europa che ci attende al varco per decidere se e quanto aiutarci, è razionalmente impensabile. Ma almeno una crisi di coscienza di chi il governo lo rappresenta, pensando alla scuola che non verrà o che verrà al minimo delle possibilità, ecco, sarebbe già un soprassalto di dignità civile. Studiare male, studiare poco, studiare peggio dei coetanei degli altri Paesi, è l’anticamera della retrocessione di una nazione. E insieme la condanna ingiusta e definitiva della generazione che, incolpevole, dovrà fare l’Italia.

Cesp Veneto

Pubblicato da: Cesp Veneto

Centro studi per la Scuola Pubblica

Via Monsignor Fortin 44 – Padova

Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.

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