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La scuola, palestra contro il razzismo

da | 10 Giu 2019 | Materiali

In un discorso del 1950, Piero Calamandrei affermava: «La scuola è un organo vitale della democrazia. È il complemento necessario del suffragio universale». Perché? Perché a scuola s’incontrano compagni di ogni estrazione sociale e condizione economica, oggi anche rappresentativi di un’Italia cosmopolita e multietnica, e s’impara a conviverci e interagirci, coltivando il germe di quel rispetto reciproco che è necessario per una civile convivenza ed è fondamento irrinunciabile della democrazia.

Come dovrà procedere allora chi voglia indebolire la democrazia? Dovrà intervenire sulla scuola dividendo bambini e ragazzi in gruppi omogenei per classe, per etnia, per religione e adoperandosi perché i membri di gruppi diversi non si parlino, non mangino o giochino insieme e si vedano sempre da lontano, come in vetrina. Se riflettiamo su queste conclusioni, saremo in grado di cogliere la perversa razionalità con cui i razzisti americani hanno lottato per decenni, anche dopo una guerra civile e verdetti che contraddicevano le loro pratiche, per mantenere la segregazione nelle scuole. A partire dagli anni 30 del secolo scorso, bambini e ragazzi coraggiosi hanno sfidato tali iniquità richiedendo l’iscrizione nelle scuole riservate ai bianchi, facendo causa se le loro richieste venivano negate, partecipando ai processi e parlando con la stampa, e, quando sono stati finalmente ammessi, sopportando insulti, sputi e botte per portare a termine il loro compito e restituire dignità a fratelli e sorelle di colore e alla democrazia americana.

Ho detto «bambini e ragazzi» ma l’espressione corretta sarebbe «bambine e ragazze». , di Rachel Devlin, professore di storia alla Rutgers University, mostra che coraggio e fermezza, lucidità di pensiero e atteggiamento invariabilmente costruttivo, nella lotta cui ho accennato, sono stati declinati soprattutto al femminile. Da Ethel Belton nel 1951, che, «quieta e metodica», spiegò ad accusa e difesa quanto avrebbe studiato di più risparmiando il tempo che le costava ogni mattina il non poter andare alla scuola (per bianchi) a lei più vicina. Da Kathy Carper, di nove anni, l’unica dei querelanti a testimoniare nel caso Brown vs Board of Education (1954), in cui la Corte Suprema decretò l’incostituzionalità della segregazione. O da Ada Sipuel, che combatté per essere ammessa alla facoltà di Legge dell’Università dell’Oklahoma, rifiutò la proposta che lo Stato realizzasse una facoltà (segregata) solo per lei e, una volta raggiunto il suo scopo (nel 1949), completò brillantemente gli studi ed ebbe una lunga e illustre carriera. Devlin s’interroga sulle ragioni di questa prevalenza femminile. Risponde che le donne, per temperamento e per educazione, avevano le doti necessarie: doti che spesso sembravano opposte le une alle altre ma che loro sapevano mantenere in miracoloso equilibrio. Deferenza e cortesia insieme alla capacità di farsi rispettare, riservatezza unita a un sorriso accogliente e sdrammatizzante, serietà e rigore temperati da sapienti e azzeccate battute. E, a fungere da solida base per tante disparate qualità, la calma determinazione a fare quel che andava fatto, perché era giusto farlo e toccava a loro assumersene il peso. «Se vedi qualcosa per terra, raccoglilo», commentò Marguerite Carr dopo aver tentato, a 13 anni, di desegregare una scuola in Texas.

Ci sarà chi obietta che è una visione stereotipa della donna. Io preferisco trarre da questa storia un insegnamento affine a quello di Calamandrei: per la democrazia bisogna lottare ma anche sapersi riconciliare con i propri avversari e, se una donna sa combinare obiettivi in apparenza ossimorici con maggiore abilità di un uomo, consideriamoci fortunati quando è lei a prendere l’iniziativa.

A Girl Stands at the Door: The Generation of Young Women Who Desegregated America’s Schools

Rachel Devlin

Basic Books, New York.

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Pubblicato da: Cobas Veneto

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