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Analisi semiseria del documento sulla scuola del Giovane Renzi

da | 16 Set 2014 | Materiali

Il pensiero sodo.

Analisi semiseria del documento sulla scuola del Giovane Renzi

di Giovanna Lo Presti da vivalascuola

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“Largo vecchi, che passano i giovani…”

Dopo aver visto il documento sulla scuola, prima annunciato con gran clamore e infine presentato dal governo Renzi, non posso che confermare una mia precedente convinzione: il miglior analista politico che abbiamo in Italia si chiama Maurizio Crozza. La superba imitazione del Giovane Renzi (quello che si presentava al pubblico con un orsacchiotto e blaterava con l’aria dell’idiota felice: “Sono Matteo Renzi, sono giovane, sono giovane” e poi diceva, esibendo l’orsacchiotto di peluche: “Vi presento il mio vicesindaco”) coglieva un tratto tanto insopportabile quanto efficace presso l’opinione pubblica del “renzismo”: la messa in evidenza dell’esser giovani come dato di merito.

Essere giovani, come essere vecchi, è invece un dato di fatto: ci sono giovani mediocri, ipocriti e imbecilli, così come ci sono vecchi che non hanno mai imparato nulla dalla vita e che si sono confermati nell’imbecillità giovanile. Poi, è naturale, ci sono giovani, adulti, vecchi intelligenti. Insomma, esser giovani non è un merito e il “Largo vecchi, che passano i giovani…” dovrebbe esser motto relegato nell’area goliardica da cui proviene.

Ma tant’è, un quarto di secolo di volgarità al potere ha vellicato le peggiori attitudini del nostro popolo, che messo k.o. da una grave crisi economica, stordito da problemi ogni giorno più grandi, sembra aver perso qualsiasi capacità critica immediata (quella, cioè, che, di fronte ad un venditore di tappeti logorroico, porta subito a sospettare l’imbroglio). Così Matteo Renzi il Giovane ha dato la scalata al premierato, con l’appoggio invisibile ma sicuro dei “poteri forti”. La sua tattica è semplice: sommergere l’interlocutore con un fiume di parole.

Anche qui Crozza ha dato una interpretazione magistrale del “pensiero politico” di Renzi, riproducendolo con una sorta di gramelot (ad imitazione non di una lingua ma di un – inesistente – pensiero logico) in cui emergono, come massi erratici, alcune espressioni ricorrenti: “Signori miei”, “speranza”, “il fare” etc. etc. Non vado oltre: detto così è noioso, fatto da Crozza è divertente ed istruttivo.

“Sono tutte fole”

Ma torniamo al documento sulla scuola: qualcuno di certo ricorderà l’uso che Crozza ha fatto della sigla dei Looney Tunes, quella in cui da un cerchio si affaccia, con una carota in mano, non Bugs Bunny, ma Renzi-Crozza, con gli incisivi anteriori sporgenti a mo’ di coniglietto. Ecco, il mio è un omaggio alla lungimiranza e all’intuizione di Crozza, perché il cerchio di un rosa antico sfumato con un cartiglio in basso che recita “La buona scuola” che fa da copertina al documento con le linee programmatiche del governo Renzi sulla scuola italiana non può non ricordare la sopracitata sigla dei Looney Tunes (vedi qui e qui); e il commento più adeguato per le 136 pagine de “La buona scuola” lo possiamo prendere in prestito dallo stesso cartone animato – “That’s all folk”; “Questo è tutto, gente”; ma preferirei tradurre, per assonanza: “Sono tutte fole”.

In realtà qualcosa di buono nel documento esiste: le statistiche, ad esempio, che brutalmente descrivono lo stato di fatto della scuola italiana. Prendo il dato che mi tocca più da vicino, l’età media del personale a tempo indeterminato. Il grafico a pagina 18 è eloquente: età media 51 anni, con un picco di presenze a 59 anni. Qui la regola del “largo vecchi, che passano i giovani” è ampiamente disattesa. Eppure insegnare è un lavoro faticoso, come comprovano i dati epidemiologici applicati alla categoria dei docenti: ed i “vecchi” non vanno rottamati, ma mandati in pensione, perché si sono meritati di emanciparsi dal lavoro dopo lunghi decenni passati dietro una cattedra.

Giusto per dare un esempio di quanto il documento renziano sia distante da ogni problema concreto (la classe docente più vecchia d’Europa è senz’altro un problema reale), basti dire che l’espressione “quota 96” non compare in nessun punto, ancorché sia questione scabrosa, che rimanda ad una palese ingiustizia riguardante però poche migliaia di persone; quindi facilmente e velocemente risolvibile anche dal più scalcinato “governo del fare”.

Così come in 136 pagine non si trova un accenno al personale ATA, che ogni giorno apre e chiude la scuola, né ai corsi serali, che pure hanno una loro specificità organizzativa e didattica.

Qui è il solito “tram tram“

Per chi, come me, sia abituato a leggere i documenti sulla scuola prodotti nell’ultimo quarto di secolo dai burocrati ministeriali e sottoscritti dai ministri della (sempre meno pubblica) istruzione qui non c’è niente di nuovo: petizioni di principio ottime, descrizioni della scuola come dovrebbe essere, totale messa tra parentesi dello stato di fatto e completa omissione di qualsiasi soluzione dei problemi reali della scuola reale, accompagnati dal basso continuo costituito dal ritornello che intreccia meritocrazia, privatizzazione, precarizzazione della condizione di lavoro. Poiché il documento prodotto dal governo Renzi si concentra sugli insegnanti, proviamo a rovesciare la prospettiva ed a parlare non delle fantasie noiose dei nostri politici ma della realtà dei fatti.

Una emergenza è rappresentata dalla abnorme sacca di docenti precari; il documento ne prende atto, lo identifica come il primo dei problemi e propone una soluzione “rivoluzionaria”:

“un piano straordinario per assumere a set­tembre 2015 qua­si 150 mila docen­ti: tutti i precari storici e tutti i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso”.

L’assunzione di 150.000 precari: grazie all’Europa

Di straordinaria, per il governo Renzi, c’è solo la sfortuna: infatti, come spada di Damocle, incombe sulla testa dello Stato italiano la sanzione dell’Unione europea, nel caso in cui si ostinasse a non assumere tutti i supplenti che hanno prestato servizio ininterrotto per almeno 36 mesi. I quali supplenti dovranno ringraziare per il contratto di lavoro a tempo indeterminato non Renzi, non Giannini, ma l’Avvocato generale della corte di giustizia europea, Maciej Szpunar (1), che ha sanzionato il ricorso ai contratti a tempo determinato nella scuola, giudicandolo un abuso. Perciò, quel buontempone di Renzi, si fa bello dell’assunzione di 150.000 precari e sottace il fatto che, se i precari non fossero assunti, il nostro Stato dovrebbe sborsare una sanzione di 4 miliardi di euro. Quindi, il governo sta risparmiando un miliardo: “… per assumere 148.100 nuovi docenti saranno ne­cessari circa 3 miliardi di euro”. (pag. 33).

Seguono alcune pagine di conti della serva, in cui si spiega che “il Governo ha molto chiaro in mente che le risorse neces­sarie per realizzare tutto ciò non sono un costo. Quanto, piuttosto, un investimento”. (pag. 35). A pagina 36 si svela l’arcano. Titoletto: “SE ANCHE LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SI INTERESSA DEI DOCENTI ITALIANI”. E si spiega, con una ipocrisia sconfinata, che l’ “attenzione dell’Europa” va

“nella stessa direzione di ciò che il Governo intende offrire alla scuola grazie ad un piano di assunzioni straordinario e ad un nuovo concorso che – insieme – diano una risposta alle aspet­tative non solo di quasi 200 mila aspiranti docenti di ruo­lo ma ad alcuni milioni di stu­denti, che si meritano docenti che, quando la mattina vanno a scuola, pensano non tanto a cosa succederà loro l’anno dopo, al successivo “walzer” di sup­plenze…”.

Da non credere. Certo, sarebbe meglio, soprattutto in un documento ufficiale, che correttamente si scrivesse “valzer”: ma, dopo aver visto il nostro Presidente del Consiglio dire in diretta “tram tram” (2) per “tra tran” non che mi meravigli molto se il suo “giovane” staff ignori la grafia corretta della pur comune parola “valzer”.

Ribadisco: il cambio di rotta apparente è solo e soltanto un modo per evitare che il Ministero dell’Istruzione naufraghi in un mare tempestoso di ricorsi e di conseguenti sanzioni UE e la capacità di rivoltare la frittata è una delle poche cose in cui Renzi e la sua nidiata eccellono.

La supplentite? Chi l’ha creata, il supplente?

Bella, comunque, l’impostazione della sezione intitolata “Tutti i nuovi docenti”, che ha un po’ il piglio di un manuale di educazione sessuale per le scuole medie: infatti, con tono asettico e “scientifico” viene, per esempio, spiegato cosa sono le GAE, cosa sono le supplenze brevi e che fine faranno le graduatorie di Istituto. Tutto molto pulito, tutto molto logico: si tralascia di dire le cose un po’ “sporche”, quelle che dovrebbero fare di ogni precario della scuola un arrabbiato di professione.

Come si è creata nel tempo questa sacca abnorme di precariato? Come mai l’ultimo concorso non ha fatto gridare allo scandalo, visto che gli iscritti erano 320.000, vale a dire una enorme bolla di sotto-occupati laureati alla ricerca di un posto fisso e dall’età media di 39 anni? Vogliamo tralasciare l’enorme risparmio che ha comportato per lo Stato la colonna portante dei precari? La migliore battuta presente in questa sezione non è nemmeno originale: il ghost writer di Renzi l’ha rubata al Libro Bianco di Fioroni. Apprendiamo, infatti, che finalmente ci sarà uno svecchiamento grazie all’assunzione dei precari: “molti sono giovani, tanto che l’età media è di 41 anni”. Va bene che la frontiera dell’adolescenza si è spostata verso i 25 anni, ma che un’età media di 41 anni venga considerata “giovane” per un lavoratore precario sembra una scemata tout court. O una bischerata per i grulli, per citare il più bel commento sintetico che ho trovato in Internet sulle nuove linee-guida per la scuola.

Il fiore putrescente: il premio al merito

Occupiamoci ora del fiore putrescente che, almeno dall’era Berlinguer (il ministro) in avanti sta all’occhiello della politica scolastica nostrana: il premio al merito.

La faccenda potrebbe essere affrontata con buon senso: sappiamo che gli insegnanti non sono tutti eguali, che accanto al bravissimo lavora il mediocre, che qualcuno conclude il suo impegno con la permanenza a scuola e che altri lavorano ore e ore a preparare lezioni e correggere compiti. Però tutti questi insegnanti tra di loro diversi sono educatori: dovremmo porci una semplice domanda e chiederci che effetto avrebbe sul mediocre l’essere stigmatizzato come tale.

Se il bravissimo lo è veramente (e non è invece un arrampicatore sociale fallito, ché per dar la scalata a denaro e successo la scuola non è la sede più adeguata), sarà pago della stima dei suoi studenti e dei colleghi. Quanto all’impegno nello svolgere il proprio lavoro, è questione del dirigente verificare, con scrupolo e onestà, se tutto funzioni per il meglio.

Stabilire chi siano i docenti migliori è questione spinosa e non è un caso che, alla fin fine, ci si butti su parametri puramente quantitativi per definire il “merito”. In realtà la “meritocrazia” è il vessillo ideologico di una classe dominante per cui la competitività è un valore e l’eguaglianza un disvalore, anzi una tabe che sta all’origine di ogni ristagno sociale. Poco conta, per la classe padrona, l’evidenza dei fatti e che dopo un quarto di secolo di grezzo neo-liberismo tutto l’Occidente (fatta eccezione per la classe padrona) sia in stato di sofferenza.

Anche la “buona scuola” di Renzi ci tedia dunque con la questione del “merito”. L’introduzione all’argomento è costituita da una parte sulla “formazione in servizio”, caratterizzata come “obbligatoria”, caratterizzata dal superamento “di approcci for­mativi a base teorica” (non sia mai, poi la teoria prende piede e si comincia a scrivere correttamente anche parole come “valzer”) e basata su un “mo­dello incentrato sulla forma­zione esperienziale tra colle­ghi” che naturalmente non potrà prescindare da una “rete di formazione permanente fra i docenti” (?).

Compare una figura sino ad ora lasciata ingiustamente nella penombra: l’Innovatore Naturale. Egli dovrà

“avere la possibilità di concentrarsi sulla formazione, e che saranno pre­miati con una quota dei fondi per il miglioramento dell’offerta formativa che verrebbe vincola­ta all’innovazione didattica e alla capacità di miglioramento, valutata annualmente” (pag. 47).

Sino a qui, grazie al cielo, nulla di concreto. Per esempio: in quali monenti si farà la formazione obbligatoria? Cosa garantirà la validità teorica e culturale della cosiddetta “formazione esperienziale”? Come si potrà far in modo che la rete di formazione permanente tra docenti funzioni? E come evitare che questo gran pasticcio non si risolva in un inconcludente cicaleccio, in cui l’ “innovatore naturale” di turno assurto ad “esperto” tormenta i propri colleghi, fra i quali, assai probabilmente, c’è qualcuno che ne sa più di lui ma ha troppa dignità per lasciarsi affiggere sul petto la patacca di “Innovatore Naturale”?

Nulla di concreto non significa però nessun pericolo in vista. Il pericolo si annuncia così: “far uscire i do­centi dal “grigiore” dei trattamenti in­differenziati”. A me ha sempre dato molto fastidio il grigiore che, come smog in una mattina d’autunno a Sesto San Giovanni, avvolge la scuola italiana. Ma non mi ha mai dato fastidio il “trattamento indifferenziato”: piuttosto mi infastidisce il blocco quinquennale dei contratti, il peggioramento progressivo delle condizioni di lavoro, lo sfacelo delle nostre aule.

Poiché siamo arrivati al punto in cui una baby-sitter guadagna quanto un insegnante (non perché la prima guadagni molto ma perché il secondo guadagna troppo poco) non vengo certo infastidita dal “trattamento indifferenziato” e ritengo che i docenti siano pagati poco anche per la pura opera di sorveglianza. Ma chi ci governa pensa che sia meglio seminar zizzania nel pollaio e quindi punta su “fastidi” epidermici, e vellica l’amor proprio di ognuno. E infatti, chi è che non si considera migliore di altri? Siamo arrivati al punto: un nuovo status giuridico dei docenti, in cui l’avanzamento di carriera (stipendiale) non sia legato soltanto all’anzianità.

A pagina 51 del documento si apre la sezione “La funzione docente”: i soliti sproloqui ed una sola proposta concreta: creare una banca delle ore che comprenda

“le ore che ciascun docente “guadagna” (e che così “restituirà” alla scuola) nelle giornate di sospensione didattica deliberate ad inizio anno dal Consiglio d’istituto nell’ambito della propria au­tonomia. Di fatto, pochissime ore l’anno (indicaticativamen­te 8/10) per ciascuno docente”.

Gliele vogliamo negare una decina di orette (sto citando Monti) alla nostra scuoletta?

Come ti limo lo stipendio

Qualche pagina dopo capiamo come si intendono premiare e identificare i meritevoli: il punto di partenza è costituito dall’abolizione della progressione automatica di carriera in base all’anzianità. Un gesto di magnanimità del giovane Renzi e della più matura Giannini, che così, con questa innovazione luminosa, ci sottraggono al “grigiore dei trattamenti indifferenziati” e ci restituiscono al cielo sereno dei “trattamenti differenziati”.

“Ad ogni docente sarà ricono­sciuto, come già avviene oggi, uno stipendio base. Questo stipendio base potrà esse­re integrato nel corso degli anni in due modi, comple­mentari e cumulabili: il primo modo sarà strut­turale e stabile, grazie a scatti di retribuzione perio­dici (ogni 3 anni) – chiama­ti “scatti di competenza” – legati all’impegno e alla qualità del proprio lavoro; il secondo modo sarà ac­cessorio e variabile, gra­zie a una retribuzione (ogni anno) per lo svolgimento di ore e attività aggiunti­ve ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo o per competenze specifi­che (BES, Valutazione, POF, Orientamento, Innovazio­ne Tecnologica)” (pag. 53).

A pagina 54 apprendiamo che, ogni tre anni (3) due docenti su tre incrementeranno il proprio stipendio di 60 euro netti. Segue calcolo che dimostra come i “più bravi” possano, a fine carriera, percepire 9 mila euro netti in più rispetto al proprio stipendio-base. Non farei alcun conto di questi calcoli capziosi: mi pare chiaro, anche senza commento, il “peso” del “premio al merito”: 60 euro in più al mese ogni tre anni.

Mi chiedo: come lavoreranno, intanto, i “non meritevoli”; e ancora: perché in una qualsiasi scuola i buoni docenti non possono essere più del 66% (due su tre?). Disseminare specchietti per le allodole (e per gli allocchi) è faccenda in cui Renzi è eccellente: qualcuno che lo aiuta sa anche come tradurre in bel linguaggio aspetti sgradevoli. Per esempio, i neo-assunti tengano presente questo:

“Il primo scatto sarà attribui­to alla fine del 2018, al termine del primo triennio dall’assun­zione dei nuovi 150 mila docen­ti. […] Ciò vuol dire che non saranno attribuiti scatti negli anni 2015- 2018. Ma anche che, nel 2018, due terzi di tutti i docenti italiani – quasi mezzo milio­ne – matureranno uno scatto di circa 60 euro netti al mese. Coloro che entreranno in ruo­lo nel 2016 e nel 2017 (rispetti­vamente prima e seconda tran­che del prossimo concorso, vedi Capitolo 1) dovranno “aspet­tare e prendere l’onda”.

Ecco un bell’esempio di investimento nella scuola, che si traduce in una ulteriore limatura del già modesto stipendio degli insegnanti italiani. E i nuovi assunti ringrazino per il fatto che sono stati assunti!

Tucidide? Quello del buono scuola!

Ci sono tante altre “idee” nella “Buona scuola”, idee che circolano da decenni e che vanno nella direzione della privatizzazione dell’istruzione pubblica. Evidentemente, in questi anni le buone ragioni dei difensori della scuola pubblica e statale non hanno fatto breccia nella classe di governo e forse nemmeno nell’opinione pubblica. Purtroppo, chi si batte per una maggiore equità sociale continua ad essere minoranza e a venir messo sotto scacco da un pensiero trasversale e acritico, che trova sempre più spazio e che diventa sempre più arrogante.

Il fatto è che la parte che si batte per la privatizzazione trova modo non solo di divulgare con metodo le proprie idee, ma di farlo con l’impunità garantita. Forse perché l’altra parte, quella delle molte buone ragioni, ha il senso del limite e del rispetto degli altri – e vuole anche evitare (cosa comprensibile) di sollevare vespai rispondendo per le rime e come meriterebbero ai propri avversari.

Faccio un esempio: nella pagina “Lettere, Commenti & Idee” de La Repubblica del 1 settembre. Compare, a firma Alessandro De Nicola, uno scritto intitolato “Scuola, la lezione di Atene e Sparta”. Inizia con una citazione di Tucidide, che parla di Pericle (definito dal De Nicola “il leader degli Ateniesi” – sigh!) il quale, intessendo l’elogio funebre dei caduti ateniesi, affermava che i loro figli sarebbero stati mantenuti dallo Stato sino alla virilità. Commento di De Nicola:

“E in che cosa consisteva questo sostegno alla paideia degli orfani di guerra? Nell’equivalente del buono-scuola: lo Stato pagava i pedagoghi che la famiglia avrebbe scelto”.

Seguono “riflessioni” sul collettivismo spartano che, secondo il De Nicola, non avrebbe prodotto nulla di memorabile e da qui, con disinvoltura, si risale all’attualità, tessendo l’elogio della scuola privata. A De Nicola (mica l’ultimo arrivato che spara scemate, ma un “intellettuale liberista, avvocato, presidente dell’Adam Smith Society, editorialista de La Repubblica e da pochi mesi anche consigliere di amministrazione di Finmeccanica”) risponde una lettera civilissima di poche righe (pag. 26 de La Repubblica del 2 settembre 2014), firmata da un insegnante modenese, Matteo Baraldi, che ricorda come il modello anglosassone e americano, basato su scuole private per le classi abbienti, abbia trasformato la scuola pubblica di quei paesi in un ghetto. Argomentazione saggia e sprecata, perché, per un intervento così rozzo e superficiale come quello di De Nicola, anche una pernacchia sarebbe stata una risposta retoricamente troppo forbita.

Che Pericle propagandasse il buono-scuola è insieme ridicolo e irrispettoso della verità storica. E sospetto che il nostro liberista convinto voglia tornare al modello economico antico basato sullo sfruttamento del lavoro degli schiavi (anche nella civilissima Atene, per ogni uomo libero c’erano tre schiavi al lavoro). Insomma, se non si recupera aggressività di pensiero e di espressione, temo che vinceranno la partita i convinti liberisti alla De Nicola, che considerano la scuola pubblica un pericolo e non una risorsa preziosa per una società civile. Ma attenzione: i nemici più pericolosi non sono gli estremisti liberisti, ma i liberisti mimetizzati ed edulcorati alla Renzi.

La favola del connettere la scuola al mondo del lavoro

Concludo l’analisi non proprio seria del documento sulla scuola con qualche annotazione sulla parte finale. Lascio perdere le solite stronzate con le quali ci torturano da più decenni sulla necessità che la scuola si adegui, si connetta, si sintonizzi sulle esigenze del mondo del lavoro. Valgano, su questo argomento, le riflessioni del professor Gallino, il quale ha da tempo dimostrato che il “mercato del lavoro” attuale richiede pochissimi lavoratori specializzati e con competenze sofisticate ed offre sempre più posti a bassa qualifica; d’altra parte un laureato penso sia un lavoratore che abbia accumulato competenze e, se il mercato del lavoro fosse pronto ad assorbire chi ha conseguito una laurea, non avremmo una sacca di almeno 320.000 laureati quasi quarantenni e sotto-occupati, come ha dimostrato il concorso per insegnanti indetto da Profumo.

La favola del connettere la scuola al mondo del lavoro nasce dall’idea che un dato sovrastrutturale (la scuola) possa influenzare un dato strutturale (l’economia); una scempiaggine senza fondamento. È chiaro che la scuola è funzione del modello sociale ed economico – quindi, sino a quando quello non cambia rotta, indirizzandosi verso la sponda di una società meno diseguale della nostra, la scuola non cambierà.

“In cauda venenum”: i privati

Andiamo alla parte finale e riassuntiva de “La buona scuola”: l’hanno intitolata “Dulcis in fundo”, ma meglio sarebbe stato usare un altro motto, “In cauda venenum”. Apprendiamo, qui, come dovrà essere finanziata la “buona scuola”: apprendiamo che i soldi per la “buona scuola” non devono essere soltanto pubblici ma anche privati.

Questi gli strumenti:

lo School Bonus, definito come un bonus fiscale per chi investe nella scuola (chi mai investirà gratuitamente nella scuola, senza un proprio tornaconto?);
lo School Guarantee, che spiego con le parole del documento:

“L’impresa che investe risorse su un istituto professio­nale, su un istituto tecnico o su un polo tecnico-professionale – ad esempio finanziando per­corsi di alternanza scuola-lavo­ro, ricostruendo un laboratorio o garantendone l’utilizzo effi­ciente – potrà ricevere incentivi aggiuntivi rispetto allo School Bonus, nel momento in cui si di­mostri il “successo formativo” dei processi di alternanza e di­dattica laboratoriale sviluppati nella scuola di riferimento”.

Io di chiaro ci vedo soltanto ulteriori sgravi fiscali per i benefattori e ulteriore sottomissione della scuola al mondo del lavoro, uno degli elementi che ha contribuito a svuotare di senso il complesso problema dell’apprendimento, riducendolo ad una propedeutica al lavoro (aggiungo: solo per le classi subalterne, perché i figli dei ricchi possono permettersi di perder tempo a studiare, magari all’estero);

il crowdfunding:

“I docenti, i genitori, gli studen­ti stessi saranno protagonisti. Questo tipo di raccolta fondi sta, in parte, già avvenendo”.

Ecco come si riabilitano le vergogne nazionali: certo che il crowfunding sta già avvenendo. I genitori che comprano con i propri soldi la carta igienica, il sapone liquido etc. etc. per la scuola dei figli fanno crowfunding: siano contenti, perché Renzi lo sa e vuole “nobilitare” questa “buona pratica”, elargendo 5 milioni di euro al crowfunding che dimostri di ottenere successo (questa elargizione si chiama matching fund e il documento ci informa che verrà fatto con rapporto 1:1 o 1:2 rispetto al crowfunding. Quanta precisione, persino nei particolari!).

La finanza buona: il Lupo travestito da Nonna

Alla fine, ma proprio alla fine, emerge l’ossimoro che costituisce la linea rossa di questo testo: la “finanza buona”. Non abbiate paura della Finanza, dice il Giovane Renzi: non è sempre cattiva, c’è anche la finanza buona, quella che aiuta i bisognosi, quella che risolleverà le sorti della scuola italiana. La faccia tosta memorabile del premier si intravvede in filigrana.

Sotto gli occhi di tutti ci sono i risultati del premierato mondiale della finanza: e se adesso il Lupo si traveste da nonna di Cappuccetto Rosso, per piacere non credeteci, non cascate nella trappola grossolana. Anche perché all’orizzonte, non si profila nessun cacciatore che intervenga per salvarci – e quindi o ci muoviamo noi (in primo luogo opponendo alla fumosità del pensiero un pensiero logico, stringente, attento ai fatti) o la “buona scuola” ci azzannerà.

Le conseguenze sono facili da prevedere: condizioni di lavoro sempre più precarie, per tutti e non solo per i precari veri (Monti l’avrebbe chiamata “equità inter e infragenerazionale”), condizioni di studio inaccettabili per i nostri studenti, costretti in classi sempre più numerose, stipendi bloccati sine die, il ripetersi del copione già recitato con il Fondo dell’Istituzione scolastica, che ha permesso ai docenti più rapaci e meno dotati di spirito critico di arrontondare il proprio reddito, senza alcuna ricaduta sulla qualità dell’insegnamento (nessuno si offenda, parlo in generale e non voglio negare che qualche collega possa aver avuto accesso al Fondo in modo motivato), scuole sempre fatiscenti, nonostante il gran chiasso sul “piano scuola”.

Una novità: tutti mobili, tutti precari

Le poche “novità” sono, in realtà, vecchie proposte, una infilata di frasi vaghe e vacue, decorate con la ciliegina del massimo numero di parole in inglese: dal docente Mentor alla favolosa – nel senso che ha la stessa credibilità di una fiaba – mobilità dei docenti come metodo per migliorare tutte le scuole: infatti, il “premio” al 66% dei docenti

“permetterà di mi­gliorare le scuole di tutta Italia, dal momento che favo­rirà una mobilità “orizzontale” positiva. I docenti mediamente bra­vi, infatti, per avere più pos­sibilità di maturare lo scatto, potrebbero volersi sposta­re in scuole dove la media dei crediti maturati dai docenti è relativamente bassa e quindi verso scuole dove la qualità dell’insegnamento è media­mente meno buona, aiutan­dole così ad invertire la ten­denza”.

Immagino il collega che si sposta in una scuola scomoda (sottraendo magari spese di viaggio al già magro stipendio e ulteriori disagi alla sua esistenza) per “migliorare” la sua posizione ed immagino quale miglioramento possa derivare ad una scuola mediocre dall’apporto di altri docenti un po’ meno mediocri.

La “mobilità orizzontale”, se si volesse essere coerenti, dovrebbe obbligare i docenti più bravi a non concentrarsi in un’unica scuola, onde favorire un innalzamento complessivo della qualità media. Ma qui i cantori della “bella scuola” scivolano sulla buccia di banana, rivelano che della qualità complessiva non gliene importa nulla e confermano il detto che il diavolo si rivela nei particolari.

136 pagine in stile “pane e marmellata“

Ancora qualche annotazione stilistica, derivante dal fatto che per leggere bene i documenti ministeriali è necessario non saltare nulla, nemmeno l’impostazione grafica. Abbiamo già detto all’inizio della copertina ispirata ai Looney Tunes; vediamo adesso la grafica, curata da Lucia Catellani dello studio Bread and Jam (Pane e marmellata, che in inglese suona meglio: facile fare la ricerca in Internet per capire di cosa si occupi lo studio).

È un trionfo di “colorini” pastello alternati a qualche tono più scuro, giusto per un contrasto accattivante. Un bel corsivo da scuola elementare si infiltra nei titoli: tutto è ordinato e la logica che si segue è quella del quaderno di cornicette. A che mai servirà un’intera pagina a puntini azzurri su fondo bianco che ne introduce un’altra, a puntini bianchi su fondo azzurro in cui campeggia un grosso titolo? E quelle matitine azzurre, quelle faccine tristi di insegnanti tratteggiate in marrone (o bordeaux, non si capisce) chi vogliono rassicurare?

Scritto grosso e chiaro, ben impaginato e colorato “La buona scuola” non è che una sintesi di proposte che da anni tentano di farsi strada e che, presentate con l’aria truce di Aprea o con i colorini della Bread and Jam sono proposte che non prefigurano una scuola migliore ma soltanto una scuola più “leggera” (per le casse dello Stato), infettata dal morbo della concorrenza e quindi ancor meno libera e aperta di quella attuale.

Il “pensiero sodo” è l’opposto del pensiero di Renzi

Per chi fosse arrivato a leggere sin qui voglio spiegare il senso del titolo: il “pensiero sodo” è l’opposto del pensiero di Renzi. È cioè un pensiero concreto, che parte da dati di fatto e su questi riflette; è un pensiero che sa ingaggiare un corpo a corpo con la verità effettuale e ne sa trarre conclusioni conseguenti. Per esempio: può un professionista laureato e quarantenne essere pagato 1.400 euro al mese in una società di mercato? Se la risposta è sì, vorrà dire una sola cosa: che quel lavoro sottopagato è un lavoro poco prezioso e poco importante. Poi si potrà blaterare del “lavoro più bello del mondo” ma la realtà è che quel lavoro vale, in moneta corrente, molto poco.

Altro esempio: si possono concentrare nelle classi di un istituto tecnico e professionale trenta e passa ragazzini, devoti al cellulare e già mediamente disaffezionati allo studio? Se la risposta è sì, non si venga poi a parlare di eguaglianza delle opportunità perché sin dal primo anno delle superiori quei ragazzi sono destinati ad un percorso di studio di serie B.

Ancora: si può ipotizzare che i presidi si scelgano la propria squadra? Se la risposta è sì, chiediamoci quale preside sarà così indulgente verso i mediocri da scegliersi una “squadra” di cosiddetti mediocri.

Ecco, questo è pensiero sodo: l’espressione è presa a prestito da Machiavelli che nell’ Arte della guerra dice: “Nondimeno la battaglia soda, sanza corna e sanza piazza è meglio”. Certo, si potrebbe smontare pezzo per pezzo “La buona scuola”, disporre in file ordinate il ragionamento che contesta le tesi governative, accerchiare il nemico con gran sfoggio di dialettica, costruire le corna e la piazza per la battaglia: ma resta il fatto che il pensiero sodo è meglio.

Io mi oppongo

Ricordiamoci dei cinque anni di contratto bloccato, delle classi strapiene, delle scuole a pezzi, dei precari ultraquarantenni vessati da un lavoro che sarà pure il più bello del mondo in teoria ma che in pratica genera disagio e burn-out, pensiamo allo squallore delle nostre aule, alle assunzioni tardive e ai pensionamenti rinviati, pensiamo ai nostri studenti, allevati in una scuola precaria in vista di un lavoro precario ed ingaggiamo anche noi la nostra battaglia soda.

Il grido che dà inizio all’attacco ce lo fornisce uno scrittore grande, che cita “la battaglia soda” nel titolo di un suo romanzo e che, nel suo libro più famoso, La vita agra, ci parla dell’Italia del boom economico, così impressionantemente vicina ai nostri tempi. Il grido è: “Io mi oppongo”, ottimo punto di partenza per cominciare a respingere i vapori oppiacei con cui chi comanda cerca di inebetirci.

Note

1. “Alla luce delle considerazioni” effettuate sul caso in questione “una normativa nazionale“, come quella italiana che autorizza ad assumere a tempo determinato in attesa che si svolgano i concorsi, “senza che vi sia la benché minima certezza – scrive Szpunar – sulla data in cui tali procedure si concluderanno (…) senza definire criteri obiettivi e trasparenti che consentano di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale e (…) non prevede alcuna misura per prevenire e sanzionare il ricorso abusivo alla successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore scolastico, non può essere considerata come giustificata da ragioni obiettive“.

2. “Purtroppo questa volta non abbiamo le slide da televendita“. Il premier Matteo Renzi apre la conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri con una battuta riferita alle ironie e le polemiche sull’uso delle slide nella conferenza del 12 Marzo scorso. Poi una svista lessicale per il premier che dice “riprendiamo il tram tram delle riunioni settimanali”

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