……………………. Dove procurarsela. Ormai la terra si compra. Nelle città è occultata, emerge solo in prigioni ristrette di cemento attorno la base degli alberi, sporcata dalle immondizie e dalle deiezioni degli animali domestici. Eppure è un peccato comprare la terra, sarebbe bello progettare uscite per andare a cercarla, prenderla in prestito dal territorio dove è disponibile per le proprie esperienze, poi eventualmente riportarla. Bisogna armarsi di pale e palette, imparare ad usarle, provare la fatica che è stata di millenni di vita agricola (ricordarsi di ricordarla). Tra comprare la terra e andarla a raccogliere c’è la stessa differenza che esiste tra mangiare i fagioli in scatola e coltivarli in un orto.1
La terra “naturale” (per distinguerla da quella artificiale in vendita nei sacchi di plastica) offre maggiori possibilità per un uso didattico, proprio perché non è predisposta, perché ci oppone ostacoli e ci obbliga a superarli.
A volte è argillosa, è polvere di suolo, e si può impastare con l’acqua per produrre manufatti che poi si possono cuocere. Raramente salto questa fase. Non solo ci rimanda ai miti della creazione, quello monoteistico (“Dio il Signore plasmò l’uomo dalla polvere della terra”) e quelli politeisti (ad esempio “Nacque l’Uomo, fatto con divina semenza da quel grande artefice […] Prometeo […] impastando la terra ancora fresca con l’acqua piovana)2, ma ci offre anche l’occasione per scoprire una qualità fondamentale del nostro territorio antropico e la possibilità di collegarsi più laicamente ai nostri antenati e antenate su su fino almeno al neolitico. Organizzare il lavoro è semplice: si prendono alcune zolle umide dall’orto o dalla propria “miniera di terra” a disposizione, le si inumidisce, si distribuiscono a pezzi ai bambini e si chiede loro di impastarle togliendo i sassolini e le radici quando vengono a contatto con le dita. Le “palle di terra” così “purificate” possono poi essere modellate in varie forme, quindi lasciate asciugare per qualche giorno. A questo punto alcuni manufatti vanno bagnati, mostrando la reversibilità di questo processo, altri li facciamo cuocere in un forno e li restituiamo ai bambini, ormai mutati di colore, divenuti terracotta rossiccia. Fantastica trasformazione. Ora i piccoli manufatti bagnati di nuovo non si sciolgono, sono divenuti uno dei materiali più resistenti non solo al peso ma anche all’usura del tempo (e costituiscono uno dei ritrovamenti più usuali per gli archeologi). Finalmente siamo pronti per un’uscita di esplorazione dei dintorni della scuola alla scoperta di tutti i prodotti di terracotta che costituiscono una bella fetta di città: mattoni, tegole, vasi, gran parte delle nostre città sono ancora fatte di terra-cotta!
Torniamo ora indietro. Avevamo raccolto della terra che ci pareva priva di vita, ma in realtà di vita era piena, di vita viva e di vita in potenza. Mettiamoci allora di nuovo al lavoro. Vagliamo questa terra raccolta e cerchiamo la vita.
Gusci di chiocciole, larve, lombrichi, millepiedi, onischi, microfauna… e poi radici, cioè frammenti di erbe che spingevano i loro apparati sotto-terra, dentro-terra, a succhiare acqua e nutrimenti, ad ancorare le erbe per resistere a vento, acque, calpestii, animali voraci di esse. Classifichiamole queste forme di vita. Ognuno disegni ciò che trova prima di restituirlo al sostrato, e poi ritagliamo e incolliamo i cento disegni in un cartellone, facciamo il censimento delle vite visibili.
Poi cerchiamo le vite invisibili: mettiamo una parte di questa terra in piccoli vasi (noi usiamo i contenitori di tetra pak del latte tagliati a metà e bucati in fondo per il drenaggio), quindi innaffiamoli e mettiamoli alla luce e al caldo, e aspettiamo. I piccoli semi nascosti che non potevamo vedere a occhio nudo, in breve tempo germineranno, miracolosi, spingendo le loro prime foglie sulla superficie. C’erano anche loro nella terra, stavano nascosti, vite in potenza, aspettavano le condizioni per germinare, oppure erano frammenti di radici che conservavano le loro proprietà germinative, capacità sviluppate nei millenni di evoluzione che le hanno rese resistenti anche ai più ostinati contadini che le strappano (ma non ai peggiori erbicidi inventati per surclassare l’equilibrio tra umanità e ambiente al fine della massimizzazione del raccolto).3