È bastata la contestazione di quattro o cinque studenti (su mezzo milione) per convincere il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ad annunciare l’ennesimo giro di vite sull’esame di stato allo scopo di sanzionare nuove proteste. È la dimostrazione che gli studenti hanno toccato un tasto sensibile.
La scuola competitiva a cui pensa il governo prevede che il valore della valutazione numerica sia condiviso da tutte le parti: se sono gli studenti a boicottarla – senza peraltro cercare scorciatoie – il castello ideologico cade. Dentro la scuola una riflessione alternativa sulla valutazione, che da strumento si è trasformato in fine ultimo dello studio, esiste già. Cristiano Corsini, professore di pedagogia all’università di Roma Tre, è il capostipite e l’ispiratore di molte silenziose sperimentazioni in corso. Con un pamphlet intitolato La fabbrica dei voti. Sull’utilità e il danno della valutazione a scuola (Laterza, pp. 176, euro 15) oggi mette il suo punto di vista a disposizione di tutti e non solo degli addetti ai lavori.
NUMERI o giudizi sintetici – «sufficiente», «discreto», «ottimo» non è diverso da 6,7 o 10 – servono soprattutto a confrontarsi, sostiene Corsini. «Come sono andati gli altri?» è spesso la prima domanda che fa un genitore. I voti hanno un pregio che spiegò il ministro Giulio Tremonti in un celebre editoriale sulla scuola: «La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici – scrisse – i numeri sono insieme precisi e semplici». Corsini ribalta l’argomento: «In un paese caratterizzato come il nostro da livelli ragguardevoli di analfabetismo scientifico, il ricorso ai decimali è sufficiente a dare un’impressione di precisione e chiarezza». Tante ricerche dimostrano che l’attribuzione dei voti sia sempre soggetta a distorsioni cognitive – l’effetto «alone», l’effetto «Pigmalione», le distribuzioni forzate. «Premio o punizione, bastone o carota: questa rozza ma sin troppo diffusa concezione del processo valutativo trova nel voto il suo perfetto strumento comunicativo – scrive Corsini –. Succede però che così facendo studentesse e studenti tendano spesso a trascurare una questione fondamentale: a scuola si apprendono cose meravigliose».
VALUTARE non ha necessariamente l’obiettivo di misurare il merito: forse più utilmente, può servire a suggerire strategie di miglioramento ad alunne ed alunni. Corsini la chiama «valutazione educativa» e la fonda su alcuni elementi come il riscontro descrittivo al posto del numero, l’errore come occasione di insegnamento, la finalità trasformativa e la «gestione partecipata del potere valutativo». Parole come queste inducono la maggior parte degli insegnanti a rivolgere l’attenzione altrove: ecco un altro trombone che senza essere mai entrato a scuola ci dice come dovremmo lavorare nel suo mondo politicamente corretto. Peccato che Corsini a scuola ci entri eccome: i «Coordinamenti per la valutazione educativa» nascono a decine nelle scuole, coinvolgendo famiglie e docenti. Applicare un metodo di valutazione diverso non è un gioco intellettuale: pone difficoltà che non vanno sottovalutate e richiedono pragmatismo. Anche perché, almeno in fase conclusiva del percorso formativo, il voto è obbligatorio per legge e ogni metodo deve farci i conti.
La «valutazione educativa» non è dunque l’ultima moda da insegnare nei corsi di formazione sponsorizzati dal ministero – quanto tempo hanno già perso così gli insegnanti? Anzi, questo ministero dell’istruzione tenderà a bollarla come un nuovismo buonista che non valorizza il merito.
SENZA SAPERE che la critica al voto ha radici profonde e che l’autore non ha alcuna intenzione di passare da innovatore. Del feticismo del voto, spiega il libro, parlava già negli anni ‘50 Aldo Visalberghi, il padre della pedagogia italiana del dopoguerra, e poi il suo allievo, e primo presidente dell’Invalsi, Benedetto Vertecchi nei ’70. Una scuola senza voti era anche quella praticata dall’amatissimo Alberto Manzi, il «maestro d’Italia», di cui andrebbe riscoperta soprattutto l’attività svolta nelle aule quando la tv non esisteva nemmeno. E adesso provate a chiamarlo «nuovismo».