Meno insegnamento, più business:
l’equazione dell’«innovazione»*
Insegnare
Insegno da prima del Duemila, potrei mostrare con innumerevoli esempi il tracollo verticale delle capacità linguistiche degli studenti, che si è intensificato negli ultimi dieci anni, fino a diventare una vera e propria catastrofe dopo gli anni della “DaD”: grafie illeggibili, ortografia e punteggiatura quasi casuali, sintassi priva di una struttura logica, mancata conoscenza del significato della maggior parte delle parole anche di uso comune della nostra lingua, enormi difficoltà a pensare e a immaginare.
Tutti i colleghi con cui parlo e mi confronto riscontrano lo stesso fenomeno, del quale sembra non accorgersi soltanto chi in classe non ci sta ma è molto impegnato a decantare le presunte prodigiose virtù didattiche del digitale, le magie di un insegnamento “non trasmissivo” e dell’“apprendimento autonomo” da appositi “ambienti” anziché dagli insegnanti. Tra l’altro oggi qualunque persona ragionevole riconosce i danni che l’abuso degli strumenti digitali produce su bambini e adolescenti: non li vede solo chi ha convenienza a non vederli.
Di certo stando in classe ci si rende conto di quanto bambini e adolescenti desiderino la relazione con gli adulti, abbiano bisogno – quasi fame – dell’attenzione, della considerazione, delle parole degli adulti; al punto che, quando si comincia a comunicare davvero, nello spazio protetto della classe – con la momentanea sospensione dei mille stimoli privi di significato che frammentano l’attenzione -, i racconti, le spiegazioni, il confronto approfondito delle idee e l’esame ravvicinato delle conoscenze suscitano negli studenti una curiosità quasi sorprendente.
Purtroppo, mentre sulla base di questa curiosità e della fascinazione della conoscenza convinci gli studenti a leggere qualche libro, riuscendo a interessarli a storie e contenuti che li arricchiscono, mentre impieghi una grande quantità di tempo ed energie a spiegare loro il significato delle innumerevoli parole che non conoscono, in un serrato corpo a corpo con qualunque tipo di testo, a insegnare loro a muoversi tra pensieri e realtà per loro nuovi; oppure mentre passi i pomeriggi e i fine settimana a commentare elaborati, a scrivere migliaia di annotazioni per mostrare ai tuoi studenti come si scrive correttamente e si strutturano pensieri dotati di una minima coerenza, nel mezzo della massima concentrazione… devi prenderti gli sputi di qualche dirigente che accusa gli insegnanti di non essere abbastanza “innovativi” perché deve promuovere i prodotti e la “formazione” venduti dai suoi amici, tra paccottiglia digitale, “ambienti di apprendimento”, ricette didattiche miracolose che devono la loro esistenza alla stupefacente ignoranza di chi le propone; oppure hai nelle orecchie il chiacchiericcio insensato di qualche paragogista che deve vendere se stesso e i suoi corsi di formazione e dimostrare la bontà dell’approccio attivistico-digital-confindustriale e competenziale, negandone i fallimenti, che partono dalla mancata insistenza su abilità e conoscenze fondamentali nella scuola primaria, una mancanza giustificata proprio da certe deliranti teorizzazioni; o ancora ti senti dare, da qualcuno ossessionato dai soldi fatti sulla pelle dei giovanissimi, del sadico-trasmissivo-frontale perché vuoi insegnare ai ragazzi che ti sono affidati tutto quello che puoi.
Mi chiedo quale altra categoria professionale subisca questo continuo, spregevole e interessato boicottaggio del proprio difficilissimo e delicatissimo lavoro, un boicottaggio che passa ora anche attraverso umilianti modalità di reclutamento slegate da ogni vera preparazione culturale. Nel frattempo incombenze burocratiche insensate, che non hanno niente a che fare con l’insegnamento, continuano a proliferare su se stesse e a spingere gli insegnanti a diventare altro, ad occuparsi degli studenti sulla carta invece che nella realtà. Non stupisce che (non) si parli di un burnout degli insegnanti…
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Mi autodenuncio: non solo parlo faccia a faccia con i miei studenti (il che fa già nascere l’insopportabile sospetto di caduta nella lezione frontale) ma, horribile dictu, cerco di spiegare loro quello che non sanno, senza aspettare necessariamente che lo scoprano grazie agli “ambienti di apprendimento innovativi”, per via laboratoriale, cooperativa ecc. Ma tutto questo è nulla in confronto al terzo outing che sto per fare. Prendo coraggio e lo dico: sono di quegli insegnanti che, tra il disprezzo generale, leggono parti del libro di testo in aula insieme alla classe.
Leggere il libro di testo in classe: c’è qualcosa di più spaventoso, di più “trasmissivo”? Eppure… in una seconda oggi, in una ventina di minuti di storia, abbiamo capito che “piaga” significa ferita che non si rimargina e, per estensione metaforica, un grave problema che non si riesce a risolvere; abbiamo capito attraverso ragionamenti etimologici o associazioni di significato con parole note cosa vogliono dire “ignaro”, “schivo”, “irreversibile”, “scemare”, “ambiguo”, “appellativo”, “sottintendere”, “effigie”, “torbido” (anche nel significato metaforico) e non so quante altre parole.
Quello che qualche sociolinguista-influencer non può sapere – nel dichiarare che l’impoverimento linguistico dei giovanissimi è una fisima degli insegnanti boomer, che vorrebbero che le nuove generazioni parlassero come loro – è che oggi qualunque testo scritto di difficoltà anche minima è per la maggior parte dei nostri studenti, scuole superiori comprese, un terreno sconosciuto e impraticabile, da conquistare insieme palmo a palmo (tralascio per ora il discorso sulla sintassi, ancora più preoccupante). Fenomeno evidente, come fin troppo evidenti sono le cause che contribuiscono a produrlo; un fenomeno che non esiste soltanto per chi parla di cose che non conosce (magari perché abituato a frequentare – da studente o da “esperto”-turista – solo scuole di un certo tipo) o per chi ha deciso a priori che non debba esistere, per motivi facilmente intuibili.
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L’innovazione replicabile
Se la scuola è un pacchetto-tutto-compreso e “replicabile”, un prodotto (naturalmente “innovativo”) da acquistare chiavi in mano, che fine fanno l’imprevedibilità della conoscenza e del pensiero, l’esperienza scolastica reale, frutto di incontri con l’altro e con il sapere che danno forme sempre nuove al mondo, la singolarità delle relazioni umane, delle emozioni, dei sentimenti?
A scuola si innova ogni giorno, perché l’incontro tra insegnanti, studenti e saperi non è standardizzabile; ed è per questo l’idea di un’ “innovazione replicabile” è totalmente paradossale e contraddittoria
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Non ci sarebbe niente di male nell’uso didattico degli strumenti digitali, quando siano funzionali all’approfondimento di contenuti culturali importanti e a vere finalità educative (chi di noi, dopo tutto, non utilizza il digitale quando serve?). L’impressione però è che alcuni dirigenti-esperti-affaristi non vogliano affatto una pluralità di approcci e metodi ma puntino alla distruzione di un insegnamento che chiamano con disprezzo “tradizionale” (in realtà l’insegnamento tout court, che va dalla scrittura a mano al dialogo sulle conoscenze, dalla relazione educativa alla riflessione culturale approfondita, dalle spiegazioni alle esercitazioni in classe e laboratoriali, all’insistenza sulla lettura, sull’elaborazione scritta, sulle abilità e sui saperi fondamentali) perché, nonostante l’ignoranza, avvertono confusamente che il confronto sui risultati con il nulla di cui sono promoter sarebbe impietoso. Per espandere il business hanno bisogno di far sparire la scuola.
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* pubblicato originariamente su https://nostrascuola.blog/
Centro studi per la Scuola Pubblica
Via Monsignor Fortin 44 – Padova
Il CESP, Centro Studi per la Scuola Pubblica di Padova, è nato nel luglio del 2004. In questi anni, oltre a promuovere dibattiti, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali inerenti al mondo dell’istruzione, ha sviluppato decine di convegni sul territorio.