Proponiamo qui di seguito un post di OS che segnala una recente sentenza/ordinanza del Giudice del Lavoro di Perugia, che fa seguito a una simile sentenza del tribunale di Rimini, a cui si aggiuge quella di Torino di un mese fa.
Riguardano nello specifico degli insegnanti di religione ma crediamo che il principio valga per tutti quei casi di precariato reiterato per un periodo di tempo superiore ai 3 anni. Quanto meno si tratta di provarci non tanto per ottenere la stabilizzazione ma quantomeno un risarcimento del ‘danno’ così come previsto anche dal DL 131/2024. “Pecunia non olet”.
Il caso nasce dal ricorso di una docente di religione che ha contestato la reiterazione di contratti a termine dal 1999 al 2021, sostenendo che questa pratica violasse sia la normativa italiana, in particolare l’art. 36 del d.lgs. 165/2001, sia la direttiva europea 1999/70/CE. Nel ricorso, inoltre, si sottolineava che l’ultimo concorso pubblico per il reclutamento di insegnanti di religione fosse stato bandito nel 2004, impedendole così per vent’anni l’accesso a un contratto stabile.
In particolare, nella sentenza, i giudici hanno rilevato che la reiterazione dei contratti era in contrasto con il principio di temporaneità previsto dalla legge italiana e con la clausola 5 della direttiva CE 1999/70 che impone agli Stati membri di adottare misure per prevenire l’abuso di contratti a termine successivi. Inoltre, secondo la legge n. 186/2003, il Ministero era tenuto a bandire concorsi con cadenza triennale per stabilizzare gli insegnanti di religione, un obbligo disatteso per vent’anni. Il Tribunale ha anche giudicato inadeguata la procedura di stabilizzazione avviata nel 2024, considerando che offriva solo una possibilità di assunzione e non una certezza, come richiesto per sanare abusi di contratti.
Si tratta di una delle prime applicazioni dei criteri risarcitori stabiliti dal Decreto Legge 131/2024 che ha introdotto modifiche significative al sistema di risarcimento in caso di abuso nell’utilizzo di contratti a termine nel settore pubblico, adeguando la normativa italiana alle direttive europee e alle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).
Cosa prevede il Decreto Legge 131/2024
Il nuovo art. 36, comma 5, del d.lgs. 165/2001, così come modificato dal Decreto-Legge 131/2024, stabilisce che, in caso di abuso di contratti a termine:
- il lavoratore ha diritto a un’indennità compresa tra un minimo di 4e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto (TFR);
- l’importo dell’indennità è determinato dal giudice, che deve tenere conto della gravità della violazione, del numero di contratti successivi e della durata complessiva del rapporto di lavoro.
Questa norma si applica in sostituzione delle disposizioni precedenti, che prevedevano un risarcimento tra 2,5 e 12 mensilità. Il nuovo intervallo di valori rende la misura più incisiva e adeguata a scoraggiare pratiche contrarie alle normative europee.
Il calcolo del risarcimento
In relazione al ruolo del giudice, la norma gli richiede di considerare una serie di fattori per stabilire l’entità del risarcimento:
- durata del rapporto di lavoro: periodi molto prolungati, come nel caso della ricorrente che ha prestato servizio per 22 anni, influiscono significativamente sull’aumento dell’indennità;
- numero di contratti stipulati: la continuità dei contratti a termine senza ragioni sostitutive è un elemento che aggrava la violazione;
- gravità dell’abuso: l’assenza di bandi di concorso per vent’anni e l’impossibilità di accedere alla stabilizzazione costituiscono un’aggravante;
- prove di un danno maggiore: il lavoratore può dimostrare ulteriori danni subiti, come perdita di opportunità o disagio psicologico, per ottenere un risarcimento superiore al minimo stabilito.
Alla luce delle modifiche legislative del 2024, la Corte ha stabilito un risarcimento di 16 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Questo calcolo tiene conto:
- dell’estensione temporale dell’abuso, durato 19 anni oltre il limite legale di 3 annualità;
- della continuità lavorativa della ricorrente;
- del carattere sanzionatorio della misura, inteso a dissuadere future violazioni.
Il valore totale del risarcimento è stato quantificato in €41.114,72, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Il carattere sanzionatorio e dissuasivo
Il legislatore ha chiarito che l’indennità risarcitoria non ha solo una funzione riparatoria, ma anche sanzionatoria e dissuasiva, volta a scoraggiare la reiterazione di abusi simili. L’interpretazione si allinea con la direttiva 1999/70/CE e con i pronunciamenti della CGUE, che richiedono misure proporzionate per prevenire la violazione delle regole sul lavoro a termine.