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QUADERNO A CANCELLI (Carlo Levi)

da | 31 Gen 2024 | Discussione, Materiali, Webpress

di Martina Bastianello*

Vi proponiamo qui uno stralcio di una più ampia riflessione di Martina Bastianello attorno al portato pedagogico di Carlo Levi, partendo dalla lettura del suo “Quaderno a cancelli”.

QUADERNO A CANCELLI

Un Carlo Levi messo all’angolo, disorientato come chiunque sarebbe stato al posto suo, spaesato e incerto come chiunque si trovi nel corso della vita – bambino, ragazzo, adulto – ad affrontare situazioni difficili, crisi, guadi, bonacce insidiose, crocevia decisivi; un Carlo Levi che impugna la biro, si fa costruire uno strumento che possa aiutarlo a tenere il filo (meglio, il segno) e, imparando a riconoscere il tocco lieve delle cordicelle tese e ad orientare la punta della penna sul foglio, ricama il suo Quaderno bello di una bellezza vaga, incerta, profonda. Mi pare di vederlo: l’intreccio che risulta dalle cordicelle del telaio e dai segni sottili dello scrittore, la traduzione grafico-pittorica dello sforzo dell’uomo di orientarsi nello spazio, nel tempo (il suo, quello personale e quello storico), nel buio, nella Futilità, categoria centrale del Quaderno.

Superato il secondo intervento e conclusa la fase dell’Occhialino (“…occhialino di censura, di protezione taumaturgica, ansiolitico, terapeutico, protettivo, censurante, amministrativo, allergico e antiallergico, difensivo, paternalistico, senatoriale, burocratico, luiginiesco, fanatico, poliziesco, mistificatorio fino a essere anche quello che è ora per me, un apparecchio di difesa, che impedisce ogni movimento che può essere Dannoso o Pericoloso…”) si apre una terza parentesi – dentro e fuori la clinica – caratterizzata dall’uso degli occhiali e dalla rieducazione alla “visione sana”; l’itinerario di Levi è sintetizzabile, quindi, nei seguenti passaggi: cecità improvvisa, primo intervento, bendaggio, Occhialino, secondo intervento, bendaggio, Occhialino, dimissione, Occhialino, occhiali, visione che si fa gradualmente più nitida. Sembrerebbe una risalita, una guarigione, un ritorno alla luce, all’aperto: “…ma nessuno potrà far sì che per un certo tempo, più o meno lungo, non abbia visto affatto, e che per un tempo più lungo abbia visto, e sia ancora destinato a vedere, male, e che questo fatto non possa più essere dimenticato”.

Carlo Levi, dimesso e in fase di guarigione, medita la sua convalescenza, fatica a dismettere l’uso del telaio, tentenna nel riconoscersi guarito: “Così, non sapendo se gli occhiali autorizzati mi daranno un grado sufficiente, un angolo sufficientemente chiaro del mondo, se l’uscita sarà ad ogni modo possibile, esito sulla soglia, e accenno soltanto a guardare, di qua e di là”. Non lo sa lui, lo scrittore, se e come sia avvenuta la guarigione, se il tentativo di orientarsi grazie al telaio sia riuscito e, se non lo sa lui, sarà ben difficile che lo possa sapere qualcun altro. Il tentativo è stato realizzato da chi poteva e doveva tentare, da chi – solo – poteva e doveva trovare un modo di attraversare il guado; nessuno avrebbe potuto sostituirsi allo scrittore: non la donna amata, nemmeno gli amici più cari perché orientarsi è un’azione (una serie di azioni, in realtà) che il soggetto deve compiere da sé, è un atto che ha senso e può “riuscire” soltanto se il soggetto lo esercita e, nel farlo, determina i tempi, i modi e i mezzi che risulteranno necessari ad orientarsi (lasciando uno spazio non esiguo al caso, spazio che Levi ha ben presente e tiene in debito conto). Andando oltre le riduttive categorie della riuscita-successo e del fallimento-insuccesso, il tentativo di Levi di orientarsi appare come una testimonianza di resistenza (l’ennesima, nel suo caso), di guerriglia, un venir a ferri corti con il buio, la visione distorta, l’Occhialino, gli Allergici, la Futilità: impressionanti le immagini che prendono forma e fluiscono nell’alternarsi di prosa e poesia (“…viaggio all’incontrario/che riporta al fantastico e vario/in questo nero sillabario/si reimparano le forme consuete/come si prendono con la rete/i pesci nell’acquario”), impressionante la capacità di produrre categorie concettuali luminose come icone contemporanee (vincono su tutti, per me, i Fanti lestofanti, “gli adulti non adulti ma adulterati, deformati in Minanti Bufanti Furfanti”, quei Falsoparlanti che non lo sanno che “non siamo al mercato, dove le parole si possono pesare e vendere e comprare e misurare col metro e le bilance. (…). Non c’è misura né parte per il tutto che è la vita: ma i falsoparlanti (i bisognosi, i vuoti, i letterati, i morti) la rodono, divorano e, senza neppure accorgersene, la distruggono”).

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Pubblicato da: Cesp Veneto

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