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INSTABILITA’ DIDATTICA

da | 8 Gen 2024 | Discussione, Materiali

di Maurizio Muraglia*

Postiamo qui uno stralcio della riflessione di Maurizio Muraglia apparsa sul webmagazine doppiozero.
E’ un invito a calarci nella realtà e a fare i conti con la fluidità dell’esistente di contro alle rigidità che il ‘comando’ sociale ci impone o propone. Buona lettura. G.Z.

Chi scrive è di questo secondo avviso, concordando in merito con le riflessioni contenute in G. Bocchi-M. Ceruti, Educazione e globalizzazione (Cortina 2004), e nel più recente M. Ceruti-F. Bellusci, Abitare la complessità (Mimesis 2020). E crede che resistere ottusamente alla naturale instabilità del contesto-classe significhi creare le migliori condizioni per far sentire gli studenti in un mondo surreale, fatto di ingredienti che essi percepiscono come non pertinenti, vale a dire i rapporti (rigidi) tra cause ed effetti, la corrispondenza tra processi e risultati, la conseguenzialità tra prestazioni e valutazioni ed altro ancora. Con tutta evidenza gli insegnanti mal tollerano l’incertezza e l’inesattezza, perché un certo pur nobile sentire li induce a pensare che i bambini e i ragazzi abbiano bisogno di “punti fermi” e non li si può lasciare in balìa della probabilità.

In realtà l’esperienza può insegnare che le cose non stanno così. In realtà sembra che le classi, dei piccoli e dei più grandi, si animino quando alle certezze e alle deduzioni programmatorie si sostituisce l’esplorazione e alle risposte si affiancano le domande. Anche le domande dell’insegnante che non sa e vuole sapere, e che cerca insieme ai suoi alunni i luoghi che gli permettano di sapere. Ma è possibile pensare che il fare scuola possa diventare così socratico? Cosa si perderebbe e cosa si guadagnerebbe da una scuola in cui il sapere consiste essenzialmente nel sapere domandare piuttosto che nel sapere rispondere? E ancora: ci sono discipline scolastiche per le quali una scuola della ricerca, aperta all’imprevedibile gioco dei contributi degli allievi, risulti più facile? Saranno i saperi cosiddetti umanistici a promuoverla?  

Oggi, sull’onda delle più recenti cronache relative a violenze di genere, si enfatizza la dimensione emozionale del fare scuola, come se non si trattasse di un aspetto costitutivo dell’esperienza di insegnamento e apprendimento. È proprio la valorizzazione di questa dimensione che non solo rende complessa l’impresa scolastica, per l’importanza che assume la relazione umana tra insegnanti e allievi, ma rende anche quanto mai necessaria l’immissione nel contesto classe di elementi cruciali quali meraviglia, stupore, ricerca, dubbio, di difficile prevedibilità e riconducibilità nell’alveo della razionalità tecnica, al cui proposito mi permetto a due miei studi pubblicati in “Nuove frontiere della scuola” (33, 2013, 11ss e 34/2014, 28ss). Un curricolo che prendesse sul serio la dimensione emozionale dovrebbe assumere un profilo a maglie molto larghe – e quindi astenersi da ogni rigidità programmatoria – proprio perché pensato per allievi reali, e quindi fortemente impregnati di emozionalità nel loro assetto cognitivo e volitivo, partecipi di ambienti di apprendimento in cui gli aspetti emozionali, come li abbiamo definiti, non sono opzionali ma decisivi (si vedano in merito Massimo Baldacci, La dimensione emozionale del curricolo, Francoangeli 2008, e I profili emozionali dei modelli didattici, Francoangeli 2009, curato dallo stesso autore). 

Davvero gli insegnanti amano agire come i missili intelligenti di Bauman, capaci di muoversi assecondando il movimento dei loro bersagli? Forse la scuola dell’infanzia e la scuola primaria possiedono quest’attitudine, ma la scuola secondaria, che maneggia repertori disciplinari altamente organizzati e soggiace spesso a logiche quantitative e misurative, fa fatica ad accogliere l’idea che un sapere consolidato è il frutto di una ricerca condivisa, discussa, rielaborata, che richiede a sua volta, da parte di chi insegna, un’osservazione altamente dinamica ed una valutazione decisamente narrativa. E soprattutto lentezza e profondità di sguardo. 

Il tema della complessità in didattica è ancora all’anno zero, e i segnali di razionalità tecnica piuttosto che scemare tendono ad accamparsi nelle aule scolastiche in termini di comfort zone del Dichiarato. Sembra, in parole povere, che la forbice tra le forme dichiarate negli atti ufficiali e la vita reale, cognitiva e pulsionale, dei discenti sia destinata ad allargarsi. Non è una buona notizia.

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Pubblicato da: Cesp Veneto

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