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NON C’E’ PACE TRA GLI ULIVI

da | 13 Ott 2023 | Osservatorio contro la guerra, Webpress

di Girolamo De Michele*

Postiamo qui di seguito da euronomade.info un commento su quanto si sta svolgendo a Gaza e dintorni, in Palestina e Israele, in Medio Oriente. Lo scritto è di Girolamo, un insegnante, uno scrittore, un saggista delle cui pregnanti parole ci siamo spesso avvalsi nei nostri convegni di aggiornamento. Ancora una volta lo ringraziamo. G.Z.

NON C’E’ PACE TRA GLI ULIVI

A mente fredda, per quanto possa esserlo, alcune affermazioni sono necessarie e doverose.

Primo: i palestinesi non sono terroristi, gli israeliani non sono coloni. Sono due popoli, al cui interno ci sono molteplici differenze che non si lasciano rinchiudere in un’etichetta. Identificare un intero popolo con una sua parte, con una fazione, con uno stile di vita, con una posizione politica, è una pratica fascista. Assegnare un’etichetta significa cancellare la vita che si agita dietro il cartellino col nome: una pratica utile a eliminare la vita rimuovendo la responsabilità e il senso di colpa, se si ha la forza di dimenticare la differenza fra un bersaglio e un essere umano. Ma chi non è capace di questa differenza non è un essere umano.

Secondo: per chi ha un’età e un vissuto cui i nomi di Tell-al Zaatar e Sabra e Shatila significano qualcosa, è il massimo dell’orrore vedere i sopravvissuti di quei massacri agire come i massacratori dei loro padri. Tal quale lo è vedere i discendenti degli scampati ai lager e ai pogrom europei costruire lager, compiere pogrom nei villaggi, colpire mercati e abitazioni civili con lo stesso disprezzo per l’Altro dei carnefici europei dei loro avi.

Terzo: chi, davanti alle carneficine in corso, esulta come per un goal della propria squadra, non importa quale; chi segue il crescere delle cifre dei morti, ormai a quattro cifre da ciascuna delle due parti, sperando che l’una sopravanzi l’altra; chi sfrutta il macello in corso per regolare vecchi conti nell’OK Corrall dei social; chi stila liste di proscrizione degli amici di-, non importa se Hamas o Netanyahu, per sovrapporle alle liste degli amici di Putin o Zelenskyj, non è degno di considerazione o interlocuzione.

Non è facile ragionare, nella consapevolezza che mai come in questo momento – ancor più che rispetto alla guerra in Ucraina – le parole sono impotenti davanti al linguaggio delle armi e alla ferocia che muove le dita che tirano i grilletti. Ma siamo della vecchia scuola, quella educata, più che all’accettazione della impossibilità di dominare tutte le maree del mondo del vecchio saggio Gandalf, al giovane filosofo ebreo-olandese: Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere, mi sono sempre curato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini, non piangerne né non odiarle, ma comprenderle. Con la consapevolezza che per ambedue il fine è la salvezza degli anni nei quali viviamo, per lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare, proviamo a mettere in fila alcuni pensieri.

Che Hamas sia o no un’organizzazione terroristica non è una questione nominalistica, perché i nomi conseguono dalle cose, ma non è mai banale il costituirsi del nesso fra le une e le altre. Non c’è bisogno di usare la parola “terrorismo” per dire che le azioni compiute da Hamas alla festa dei mondi paralleli (il rave party nel deserto del Negev) e nel kibbuz di Kfar Aza hanno toccato soglie di orrore per quali non è pensabile alcuna giustificazione o attenuante, perché non c’è antecedente o causa storica che possa giustificare la concezione della vita, del corpo delle donne, del diritto al futuro che ha mosso i carnefici: neanche, sia chiaro, il fatto che questi diritti sono parimenti negati a un popolo in catene sulla sua terra da anni. Ma “organizzazione terroristica” indica uno status di banda armata capace di azioni terrorizzanti estemporanee, e al tempo stesso sottende una superiore o esterna capacità politica: la longa manus iraniana, per dire. L’azione dispiegata da Hamas, la sua progettazione, il numero di combattenti messi in campo, il quantitativo di razzi usati indicano non una banda, ma un esercito; così come il consenso di cui di fatto Hamas gode indicano un partito politico che agisce come il governo di uno Stato, con una propria capacità politica in grado di interferire in modo significativo con la diplomazia saudita, e anche iraniana. Dire che Hamas agisce come uno Stato non significa legittimarne le azioni o attenuarne la brutalità: serve, piuttosto, a ricordarci che gli Stati sono questo; che gli Stati non sono l’esercizio legittimo della violenza che asciuga e governa il terrore dalla società, ma sono capaci di terrorismo. La differenza fra Stati “democratici” e Stati autoritari, o autarchie, o dittature è meno significativa di quanto appaia agli ingenui: il fatto che Hamas avviava il macello nei giorni in cui in Italia si ricordava l’ecatombe del Vajont, con tutto quello che il Vajont ha significato, dalla secretazione governativa degli atti alla messa in campo di una macchina di propaganda, dall’azione legale dell’ex Primo Ministro e futuro Presidente Leone (il codicillo della commorienza) dovrebbe dire qualcosa. Così come dice tutto il fatto che negli stessi giorni in cui Hamas organizzava lo sfondamento delle barriere di confine i Primi Ministri dell’UE si riunivano per decidere quali restrizioni apportare al diritto di fuga e migrazione nel Mediterraneo, cioè qual è il numero dei naufragi e degli annegamenti da aggiungere a quelli già in atto accettabile come mediazione fra i governi in vista delle prossime elezioni europee.

Nell’interpretare la guerra russo-ucraina come un Risiko nel quale ci si schiera con i “buoni” contro i “cattivi” si finisce per dire che ci sono Stati “buoni”: il farsi Stato di Hamas, e l’esercizio della rappresaglia di Stato di Israele, ci ricordano che nessuno Stato è in sé buono.
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